martedì 28 dicembre 2010

Aspettiamo l'Epifania... sferruzzando...trame di memorie e speranze


Ma siamo proprio sicuri che il mondo della scuola sia scontento della riforma Gelmini e dei tagli tremontiani?
Appena un anno fa mi trovai a scioperare ripetutamente contro il riordino (disordino?) dei curricoli liceali. In una manifestazione decembrina a Roma, insieme a qualche centinaio di “disperati” come me, sfilai in un malinconico corteo fino a Piazza del Popolo. La piazza era inondata dal sole. Io mi ci aggiravo in solitudine, ed anche un tantino soprappensiero, perché tutto quel cammino non aveva giovato alle mie gambe malconce. I megafoni amplificavano l'oratoria del comizio dai soliti toni accorati. Le parole risuonavano fasulle. Mi guardavo intorno: visi distratti; sparuti capannelli di chiacchiere. Mi doleva la gamba sinistra. Decisi di tornarmene alla stazione. Non avevo voglia di sprofondare nella metro. Mi inoltrai in via del Babbuino. Accanto a me una signora bionda camminava a passo svelto. Le chiesi la strada più breve per Termini. “Facciamo la strada insieme!”, mi disse sorridendo. Le tenni dietro cercando di non zoppicare. La sofferenza fu ripagata dallo scambio di umanità tra due donne libere e presenti a se stesse, con la passione comune per l'insegnamento. Ci lasciammo a piazza Esedra con la reciproca promessa di rimanere “interconnesse”. La signora si chiama Giovanna e ora è una delle mie amiche di facebook. Con quella manifestazione si è chiusa un'epoca per la scuola e, secondo me, anche per i modi di esprimere il dissenso. Da allora ho preso atto che si deve ripartire da un altrove.
Molti docenti, forse troppi, ma anche tanti intellettuali, professionisti laureati, non hanno coniugato avanzamento sociale, grazie al titolo di studio, con profonda cultura umana e civile. È per questo, credo, che la maggior parte è rimasta inerte davanti ai colpi inferti alla scuola dalla Riforma Gelmini - Tremonti, in particolare alle discipline umanistiche. Lì per lì mi ci sono arrabbiata. Mi sono aggirata infuriata tra i colleghi. Ho votato, nei collegi dei docenti, contro i progetti presentati, perché, a mio avviso, sono elaborati in funzione della distribuzione dei fondi e non per l'educazione e la formazione dei giovani studenti. Il risultato? Una grande solitudine! Ma mi ripaga il fatto che nella rete ho trovato tantissimi compagni di pensiero in cammino. E mi appaga la consapevolezza di essere una donna che non ha mai trascurato l'attività manuale.
Mi sembra meraviglioso "curare" a un tempo la mente e la mano e il cuore.
In questi giorni faccio la calza. Che stupore! Due ferri, un filo e l'agilità di due mani! Ma non basta! È attiva la mente immaginativa scaldata dalla gioia del cuore, mentre il filo prodigiosamente diviene trama e prende forma. E intanto volano i fili del pensiero guidati dal cuore. Ripercorrono trame perdute. Infilano maglie della memoria al ritmo del ticchettio dei ferri che dipanano e tessono il gomitolo.
In questo tempo della memoria è ancora la maestra Ada che guida la trama. Lei, la narratrice di storie, per prima mi insegnò a tessere il filo e a ricamare la trama. Le mattinate del sabato, infatti, le aule diventavano laboratori. Tutte le maestre si prodigavano nell'insegnare alle scolare e agli scolari l'arte meravigliosa della mano. Sapevano certo che il lavoro manuale si accompagna a quello intellettuale, per la pura gioia dell'essere umano e per il bene comune. Inconsapevolmente allora appresi che la dignità dell'uomo è nella sua unità e nel rispetto per tutto quanto lo fa uomo.
-“Faccio la calza, dunque sono”-
mi viene di correggere. Perché, mentre ammaglio il filo colorato, si svolgono i fili del pensiero e si dipanano le storie. È il tempo di ricomporre quel mortificante dualismo. È questo il momento di capire che l'educazione dell'uomo deve essere integrata e complessa. Non si tratta di ricomporre soltanto la dicotomia fra cultura umanistica e cultura scientifica, (e contro questa sacrosanta ricomposizione è stata varata la Riforma Gelmini dei curricoli scolastici), ma di eliminare la differenza di valore che attribuiamo al lavoro, e, ancor prima di rimeditare sull'idea stessa di cultura e di sapere.
Per evitare il declino e la regressione alla barbarie, la nostra società deve chiedere, per tutti, più conoscenza in ogni ambito disciplinare, più attività culturale in ogni campo dell'arte umana. Dico “attività” perché tanto l'esercizio quanto la fruizione dell'arte contribuiscono “attivamente” alla crescita di individui buoni, potenzialmente buoni cittadini che non disgiungeranno l'interesse personale da quello della comunità. La fruizione e l'esercizio delle “arti belle” sono indispensabili all'educazione umana. L'ispirazione è un dono divino, l'entusiasmo stesso della vita. Posso avere ville, soldi, forzieri pieni di preziosi, potere e titoli laureati, ma se non ho l'entusiasmo, vita ben misera è la mia!
Credo che gli educatori debbano sentire potentemente l'entusiasmo, ed essere testimoni della cultura integrata della mente e della mano. L'estensione dell'accesso alla scuola avvenuta soprattutto negli anni sessanta è un valore di cui dobbiamo andar fieri. Grazie a quelle riforme tanti figli del proletariato hanno compiuto il passaggio di classe. Indietro non si può e non si deve tornare. Oggi ci tocca fare dei passi in avanti. Ognuno di noi deve impegnarsi in un progetto in cui la cultura assuma il massimo valore, l'unico condivisibile: la crescita integrata di corpo mente e cuore, affinché si realizzi l'obiettivo della giustizia ed del ben-essere di tutti gli uomini.
Perciò è indispensabile volere ad ogni costo una scuola pubblica di altissimo livello. Non possiamo avallare un progetto politico che favorisca scuole private d'élite per la classe dei dominatori dai colletti bianchi e immiserisca quelle pubbliche destinandole ad una massa di lavoratori forzati.
Non assecondiamo il progetto della scuola azienda in cui i “clienti” vengono addestrati secondo la domanda del mercato! Studiamo, immaginiamo e lavoriamo per una scuola che educhi uomini colti e liberi, elevati di mente e di cuore, che siano padroni di sé e che non disprezzino nessun lavoro, per non disprezzare mai né se stessi, né i propri simili!
Uomini siffatti coltiveranno nel cuore il seme della giustizia e della pace e ameranno sempre la libertà.

Continuo a sferruzzare soddisfatta.
La memoria svolge altri fili. Altri volti di un tempo lontano fanno capolino. Ancora, da quelle aule felici dell'infanzia, mi sorride il maestro Barbagli, seduto al pianoforte, mentre ci dirige nel canto, dopo averci insegnato “Adeste, fideles, laeti triumphantes...”.
Piroetta aggraziata la maestra Ambra Gragnoli, che ci guidava nei saggi di ginnastica artistica e nell'azione scenica.
E intanto, eccola lì la mia maestra di “trame”!
Ada Cappelli mi sta leggendo una storia e... a un tratto, abbassato il libro, mi strizza l'occhio, compiaciuta del mio lavoro a maglia.

domenica 26 dicembre 2010

Il bucaneve e i neuroni specchio

Avete mai giocato a “se fosse un fiore?”
Si pensa per metafora, raccogliendo in un figlio dei prati e dei giardini, dai più semplici ai più sofisticati, le qualità di un essere umano. Ci giocavo insieme ai compagni della giovinezza. Me, mi rappresentavano nella violetta. Il bello è che la mammola è il mio fiore preferito. Da bambina inventai un dialogo tra questo fiore e un ruscello sugli argini del quale era spuntato.
Occhieggia timida la mammola molto prima del tripudio di primavera.
È piccina e ride col suo cuoricino di sole tra il verde scuro delle foglie a cuore.
In un marzo lontano, tirai per la mano il mio grande e teneramente austero papà, perché mi accompagnasse giù per la scarpata fino alle umide sponde dell'Ombrone, in cerca di violette.
Negli amati scenari delle mie fiabe avevo appreso che lungo i corsi d'acqua spuntano in abbondanza le violette.
Non me lo disse mai, ma di certo papà fu ripagato dal mio esultante battimani, quando scorsi la prima mammola. Quel giorno me ne tornai a casa presa dall'incanto del mazzolino che avevo composto.

La mia infanzia è un prato fiorito. I ricordi di quel tempo sono forme delicate di colori profumati. Si raccolgono nelle storie della maestra. Ada Cappelli confidava nei racconti gentili, anche quando ci invitava ad eseguire il dettato o a compitare per l'ortografia. Esercizi mai disgiunti dal potente immaginare. È per questo, forse, che quei tempi sono “idilli”, paesaggi dell'anima, sfumati ma tanto potenti nel sorreggere le speranze ancora oggi, in questo tempo che confina col gelido e muto inverno.

Mi ricordo proprio ora della storia del “bucaneve” . Sebbene non lo abbia mai visto nella realtà, ne vagheggio, sorridente, il calice candido che sbocciò sulla candida coltre affinché Maria lo riempisse dell'acqua del disgelo per dissetare Gesù.

In seguito alle ricerche sul cervello del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, sono stati individuati dei neuroni speciali, i “neuroni specchio”, responsabili della nostra capacità di empatia (Rizzolatti-Sinigallia, So quel che fai, Raffaello Cortina). È stato osservato, grazie alla tecnica del Brain imaging, che questi neuroni si attivano non solo quando viviamo un'emozione o compiamo un'azione, ma anche quando vediamo un altro “emozionarsi”, “sentire” o “fare” qualcosa. Nella “natura” animata sono iscritte, pertanto, la predisposizione a vedere e sentire l'altro e la inclinazione a “conoscere” mentre siamo in relazione con gli altri. Ma la natura va coltivata, dentro e fuori di noi. Ciascuno di noi è responsabile dell'altro, quindi. E con “l'altro” non si intende unicamente un essere umano. La sensibilità, come un fiore, chiede cura per sbocciare e ingentilirsi per ingentilire. Ovunque si posi, il nostro sguardo suscita una reazione influenzata dalla nostra disposizione. È inutile attribuire tutta ad altri la responsabilità della volgarità che ci circonda. “So quel che fai”, sembra che ci dicano tutte le “cose” intorno a noi. E ce lo dicono soprattutto i giovani. La maestra Ada Cappelli, in quel tempo ormai lontano, non poteva sapere dei “neuroni specchio”, ma, naturalmente, sapeva che “portare i bambini in giardino” era il modo migliore per educarli alla gentilezza. Era un giardino di storie, come quella del bucaneve, che annuncia il disgelo e il fiorire delle violette. Quando ripenso a quel tempo, mi sembra incantato in una magica armonia. Sobrietà, fermezza e gentilezza adornavano il fare e il dire di quei consapevoli educatori. E i giovani vivevano quella sapienza! Ecco, è questo l'auspicio: che possiamo divenire consapevoli che la natura, dentro e fuori di noi, richiede “cura”, ovvero “cultura”!
Che spuntino sulle lande gelate i bucaneve ad annunciare il disgelo!

“Per fare tutto ci vuole un fiore!”

mercoledì 8 dicembre 2010

Il tempo ritorna, ma niente è mai come prima!

Il tempo della natura ritorna. È una spirale in cui si svolge la “fabula" umana. Dalla nascita alla morte di un singolo, dall'inizio alla fine di un'epoca, dal fiorire al decadere di una civiltà. Il filo della spirale è fitto di intrecci di innumerevoli fili della Storia e delle storie.

Sarà presto ancora una volta Natale e la nascita di un Fanciullo coinciderà col chiudersi di un ciclo annuo. Quasi a segnare la continuità del filo, l'inizio nella fine. Continuità e contiguità. Ma non uguaglianza. Continuità, contiguità e metamorfosi all'unisono. Metamorfosi nel nascere ancora.
Natale nell'inverno. Quando il freddo gela la terra, che si è spogliata della sua veste di fiori e foglie, è Natale. È un germoglio che sorride mentre la terra si raccoglie nel silenzio sotto la neve. È un fiorellino in boccio che sfida il gelo dei cuori.

È Natale nelle città tumultuose, Grotte luminescenti e rumorose. Sulle vie asfaltate o lastricate di antichi basoli passa l'umanità! Tra lo svaporare umido dei fanali il riverbero dei colori assorbe gli odori della folla che sciama ansiosa.
Sarebbe un desiderio oleografico desiderare Natale in una grotta suggestiva, in mezzo ai pastori di una Arcadia perduta.
Natale è qui, tra “le case aggiunte a case”, per “le strade che sboccano nelle strade” dei paesoni e delle metropoli. Nel frastuono c'è il silenzio e la compassione!
Non si può fuggire in un altrove artificiale. L' altrove è nella metamorfosi segnata dalla nascita, tra l'anno che si conclue e quello che incomincia.

Stamattina ho mangiato la marmellata preparata per me da un'amica conosciuta quest'anno grazie alla comunicazione nella Rete. Una marmellata speciale che lei ha chiamato “Testata d'angolo”. È una vera composta di frutti vari, quelli sciupati che, nella nostra dissennata opulenza, scartiamo e destiniamo all'immondezzaio. È una marmellata deliziosa. Ne mangerò ogni giorno fino a Natale. È anche una marmellata simbolo dei frutti raccolti in quest'anno che volge al termine. Tra i più buoni c'è l'amica che mi ha donato la marmellata.

Opportuno ritorna il tempo degli auguri con gli auspici della metamorfosi.
Perciò trascrivo di seguito una nota che scrissi all'inizio dello scorso anno. Sono parole che sperano frutti amicali, di cui ho gustato lietamente nel corso di quest'anno.

Sì il tempo ritorna, ma niente è mai come prima! È sempre meglio di prima, se lo desideriamo di cuore!

I racconti salveranno il mondo

Quando ero adolescente scrivevo il diario. Mi piaceva raccogliermi nel silenzio per rievocare le vicende del giorno trascorso, ripercorrendo gli stati d'animo che avevo attraversato. Inconsapevolmente coltivavo l'abitudine all'introspezione e all'attenzione per la realtà nella quale ero immersa. Mi soffermavo sui volti che avevo scrutato, ascoltato, ai quali avevo concesso o negato il sorriso, catturata dalle emozioni degli incontri. Le pagine si infittivano di parole che davano corpo al vissuto e alle attese. Mi piaceva cercare le parole più adatte. In quella ricerca mi tendevo nello sforzo di capire me stessa e il mondo circostante.
Il ricordo di quella mia abitudine adolescenziale è stato destato da un'intervista radiofonica a Duccio Demetrio, che da molto tempo si occupa di scrittura biografica ed autobiografica (cfr. Duccio Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina 1996).
Docente presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, Duccio Demetrio, nel 1998, insieme a Saverio Tutino, l'inventore dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, ha anche fondato La Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, non lontano dalla mistico “crudo sasso” della Verna.
Durante l'intervista che ho ascoltato lo studioso, avvalendosi delle meditazioni che hanno prodotto la sua ultima opera (Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano, Ponte alla grazie 2009), rispondeva a domande sulla possibilità di una “Ascesi Metropolitana”, ossia di un esercizio di attenzione alla realtà, nelle moderne città paragonabili a un “deserto sovraffollato”.
L'argomento mi è sembrato carico di buoni auspici per il futuro. Ho pensato così di scrivere le suggestioni che me ne sono venute.

È incominciato il nuovo anno. È un anno di confine tra un decennio ed un altro. Potrebbe recare in sé i fermenti di un'era nuova, nella quale gli uomini cessino di essere quelli “della fionda e della pietra”, quelli del tempo in cui “il fratello disse all'altro fratello: "andiamo".

Forse un indizio di questo TEMPO NUOVO è leggibile nel desiderio di comunicare di cui la “rete” è testimonianza. La stessa circolazione delle informazioni e l'infinita possibilità dei contatti sottrarranno a qualsiasi potere la libertà e affideranno il destino umano alle scelte consapevoli degli individui.
Finalmente il progresso della ragione potrebbe non essere separato dall'ingentilirsi del cuore. Nascerà una nuova stirpe. Ogni attività dell'ingegno umano si asterrà, pia, da qualsiasi azione violenta sulla natura e si dedicherà a rendere vivibile la vita dei fratelli.

Allora non più “alle fronde dei salici, per voto”, saranno “appese” le “cetre” dei poeti.
NUOVI INNUMEREVOLI CANTASTORIE allieteranno le nostre città, modulando i racconti di una nuova civiltà. Nuovi rapsodi “cuciranno” le storie in un poema epico senza fine e confini.

OGNI UOMO sarà artefice di questo “nuovo tempo”, se diventerà un GENTILE CANTASTORIE, esplorando il suo cuore con l'apprendere a conoscere o a riconoscere se stesso e a RACCONTARE, innanzitutto a se stesso, la sua storia. Di questo BISOGNO DI NARRAZIONE è necessario divenire consapevoli.

Ma la parola che esprime una storia incarnata nasce dal silenzio di un' “ASCESI”.
“Ascèsi” deriva dal verbo greco “askéō” “io esercito”. L' “ascesi” è corporeo esercizio di quell'attenzione che aspira a comprendere l'altro, lo sconosciuto, lo straniero che ognuno reca in se stesso.
Il desiderio di raccontarsi coincide con il bisogno di conoscersi nel raccoglimento di un'osservazione attenta e pietosa, amorevole ma veritiera.
Coloro che sanno raccontarsi sono in grado di comporre un microcosmo in una storia, rivivendo, nella loro arte, l'infinita gamma dei sentimenti umani. Diventando narratori di se stessi si diventa anche narratori delle vite degli altri, perché la narrazione autentica sgorga dalla COMPASSIONE.

Il silenzio in “ascesi” è esercizio di “compassione”. La “compassione” è un sentimento elevato. È il tratto essenziale dell'essere umano. In fondo ad ogni arte degli uomini esiste la “compassione”, ossia quella capacità di essere in sintonia con la complessità dell'io che riconosce in sé la complessità del mondo, e lo comprende.
La “compassione” tende la mano all'altro, e non esclude nessuno.

La “compassione” fu il soffio ispiratore di uno straordinario esploratore del cuore umano, F. Dostoevskij. E da lui raccolgo e trasmetto l'invito conclusivo. Faccio mie le parole pronunciate dal mite Alesa, il più giovane dei fratelli Karamàzov, nell'epilogo del romanzo :
“ecco, andiamo tenendoci per mano...”.

martedì 2 novembre 2010

“Mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui”


“Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro”.

Con questa immagine Machiavelli, scrivendo all'amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513, conclude il racconto di una sua giornata in esilio nel podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, una località tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa. Quando ero una studentessa del liceo fui colpita dalla potenza espressiva di questo passo, che Mario Selleri, il maestro che, in quei fertili anni, mi guidò sui sentieri della poesia, lesse e commentò con voce vibrante ed occhi lucidi. Nel passo, Niccolò si eleva e si trasforma. Incede nella sua biblioteca al ritmo solenne di una sintassi che asseconda l'impeto del cuore. È statuario e sacro mentre indossa “panni reali e curiali”. Si staglia austero e umanissimo in quel bisogno d'amore che gli “antiqui uomini” gli offrono insieme al cibo della parola, la quale nutre l'uomo di memoria vivente e ne fa una “mediazione vivente”. Chissà se ancora oggi siamo capaci di un simile slancio! No, non uno slancio verso l'alto nell'illusione di un'improbabile estasi. Ma un lungo sentiero che scivola al centro di se stessi, laddove rivive la parola della memoria della pura umanità. Lì è stratificata la voce dell'uomo che risuona di eterna verità. È l'ἀλήθεια non svelata, celata, ma visibile nell'attimo di una riscoperta. È il momento del dialogo che nell'intimo si stabilisce tra l' uomo e la memoria vivente nella parola scritta, mediante un testo vivente.

Nel passo che ho trascritto leggiamo la metafora del libro vivente che reca incise le lettere di fuoco di millenarie ricerche. È la memoria che si fa cibo nutriente dell'uomo affamato di verità.

Più che mai, oggi, sentiamo il bisogno di “pascerci” delle parole “delli antiqui uomini” che risvegliano la nostra umanità!

In dialogo coi “grandi cercatori” forse anche noi potremo dire: “sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”.






martedì 5 ottobre 2010

Il bacio dell'uomo libero

Ci sono nella letteratura pagine brucianti di verità. In esse ogni parola è materia prima, fuoco ardente che rapisce e illumina i nodi essenziali della storia umana. Una di queste pagine è “La leggenda del Grande Inquisitore”, costruzione drammatica di un dialogo tra due fratelli, Ivàn, tormentato cercatore, ardente della sua logica di ghiaccio, e Alëša, mite viandante dal cuore puro, che, sospendendo ogni giudizio sull'umanità, procede sereno e lieve per le strade della vita. “La leggenda del Grande Inquisitore” è un racconto drammatico incastonato come una gemma nel romanzo I Fratelli Karamazov, sintesi poetica dell'immenso Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Ho usato l'aggettivo “drammatico” perché il racconto è costruito da Ivàn sulla scena del dialogo con Alëša. La storia è quindi metanarrativa e contiene drammaticamente il pensiero dell'autore in un denso e complesso intreccio di piani del racconto. Tempi e spazi dell'immaginazione e della realtà si intersecano, in un gioco di specchi che moltiplicano i punti di vista, disorientando il lettore costretto a salire sul palcoscenico del dramma. Dostoevskij affida ad Ivàn le domande sul destino della vita umana e sull'ordine del mondo. Ivan prova orrore per il disordine e il male. Intelligente, colto, brillante, egli è oppresso dalla vergogna del padre, Fëdor Pàvlovič, vizioso impenitente, e dei fratelli Dmìtrij e Smerdjàkov, istintivo e violento il primo, sordido frutto di un vile stupro il secondo. Dal profondo del cuore il disgusto e l'astio opprimono Ivàn. Da questo disgusto nasce in lui l'idea che con il potere di una superiore ragione si possa stabilire un ordine in nome del quale ad un uomo “tutto è lecito”. Perciò Ivàn si vota interamente alla ragione e giunge a formulare ambiziosi teoremi, la cui logica ferrea si rivela in definitiva come una gabbia intollerabile per la coscienza.
Come può ergersi nella grandezza l'uomo? Come può eliminare il male e il dolore dal mondo? Sfidando Dio. Arrogandosi il potere determinante la vita stessa degli esseri umani. C'è in Ivàn questo desiderio di far tornare a tutti i costi i conti della vita. Egli immagina l' “onnipotenza” dei grandi uomini ai quali “tutto è lecito” e la incarna in un fantastico Grande Inquisitore. È così che Ivàn dà corpo alla sua idea e inventa una storia che racconta ad Alëša.
Ecco in breve la trama.
Nel sedicesimo secolo, a Siviglia, nel corso di un autodafé in cui “ bruciavano gli eretici” per volere del cardinale “grande inquisitore”, il Re Celeste “nella sua immensa misericordia torna nuovamente tra gli uomini in quella sua forma umana in cui quindici secoli prima era vissuto tra gli uomini per trentatré anni”. La folla che assiste ai roghi spietati voluti dall'inquisizione Lo riconosce immediatamente e riprende a sperare. L'amore si risveglia nei cuori stracchi e spenti. La forza dell'amore agisce anche manifestamente nel ritorno alla vita di una bimba giacente in un bara sommersa di fiori. Il Grande Inquisitore scorge Cristo e subito è colto e impietrito dal terrore. Lui è tornato. La presenza di Cristo può rinnovare negli animi degli uomini il desiderio di quella libertà in nome della quale Egli offrì la sua vita. Il vecchio cardinale sente che il suo potere è in pericolo. Immediatamente ordina l'arresto di Cristo. Lo visita in carcere. Gli rivolge domande incalzanti. Perché è tornato? Perché vuole turbare la pace faticosamente stabilita dagli uomini grandi e potenti sugli uomini bambini che hanno paura di essere liberi? Gli uomini hanno terrore della libertà. Liberi, si aggirano sulla terra oppressi dalla fame, dal mistero della morte, dalla fatica della coscienza che li pone davanti alle scelte più angustianti nel consesso dei simili. Il potere del Grande inquisitore ha fondato la pace accogliendo in sé la forza onnipotente “dello spirito penetrante” che nel deserto pose a Cristo le tre domande che racchiudono tutta la storia dell'umanità. È la storia drammatica dei bisogni materiali, della paura del dolore e della morte, della necessità di prostrarsi innanzi ad una autorità suprema. Accogliendo quelle tre domande, ovvero mutando le pietre in pane, buttandosi giù dal tempio, accettando il potere nel prostrarsi al potere, Cristo sarebbe stato davvero seguito docilmente dagli uomini. Ma Lui era venuto a sovvertire l'ordine, a sconfiggere ogni paura, a testimoniare la libertà della coscienza rispetto ad ogni potere. Perciò Il Grande Inquisitore inveisce contro il prigioniero silenzioso, e lo accusa con parole tremende: “Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l'hai ulteriormente accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e persino la morte è più cara all'uomo della libera scelta tra il bene e il male? Non esiste nulla di più seducente per l'uomo della libertà di coscienza, ma nulla è altrettanto straziante”. Ed ora Cristo è tornato a turbare l' ordine faticosamente stabilito, quell'ordine che garantisce per sempre la separazione del bene dal male. Che importa se a quest'ordine gli uomini sacrificano la libertà? La schiavitù è garanzia della felicità!
È da brivido il grandeggiare dell'inquisitore che si erge a vittima onnipotente per garantire la felicità degli uomini schiavi. La lettura ci fa vibrare per l'altezza tragica del discorso del vecchio inquisitore, esangue nel volto, estenuato dal fuoco del suo pensiero e della sua orazione. E il lettore è scosso dal dramma universale inscenato dalla fantasia febbricitante di Ivàn.
Si rivede, il lettore, ora in quell'oscuro “potere” che smania di onnipotenza, ora nella fragilità degli uomini “deboli che sono solo dei poveri bambini”. Ma vibra di orrore e pietà per se stesso, il lettore, ascoltando le parole rivolte a Gesù dal Grande Inquisitore: “Oh noi consentiremo loro anche il peccato, certo, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso con il nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo, e che, quanto al castigo per tali peccati, lo assumeremo noi sulle nostre spalle. Così faremo ed essi ci adoreranno come benefattori che si sono fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio. … Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi guarderanno alla nostra decisione con una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dover decidere liberamente e in prima persona... Essi moriranno in pace, in pace si spegneranno nel Tuo nome e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto e per la loro stessa felicità li culleremo nell'illusione di una ricompensa celeste ed eterna”.

Come non sentire un moto di ribellione a tanta iattanza? Come non rabbrividire nel gelo di una ragione tiranna che disegna un mondo senza disubbidienza, popolato di bambini irresponsabili e schiavi soddisfatti di miseri trastulli? Come non sentire il segno della sacra responsabilità di ciascuno di noi nella libertà sacra che ci fa uomini?
E poi, d'un tratto, il nostro orrore si tramuta in compassione. IL grande inquisitore ha paura del suo silenzioso prigioniero. Teme che gli uomini possano svegliarsi dal loro infantile letargo. E conclude perentoriamente il suo discorso dicendo : “Domani ti farò bruciare: Dixi”.
Ma a questo punto mutano i nostri sentimenti. Anche noi, come Alëša,. avvertiamo che il discorso di
Ivàn non è una condanna, ma “un elogio di Cristo” e, aggiungo io, della nostra libertà.

E come non essere toccati dal duplice epilogo di questa emblematica sacra rappresentazione! Alle domande incalzanti del vecchio Inquisitore Cristo non risponde parola, ma gli si accosta e “lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui”.
Ho esordito accennando che Il Grande Inquisitore è un racconto in divenire sulla scena di un dialogo. Un racconto nel racconto costruito come un gioco di specchi. Specularmente, infatti, anche Alëša bacia Ivàn.
Il duplice bacio è un suggello d'amore a placare il tormento delle domande smaniose di un cuore senza pace.

Quando ripenso a quest'opera mi invade un senso di gratitudine e la voglia di diffonderne la lettura come un dono inesauribile per l'umanità. Quanti commenti ne sono stati fatti! Critici e filosofi ne hanno dato miriadi di interpretazioni. Io non volevo aggiungere commenti, né mi azzardo a dimostrazioni attualizzanti. Avrei voluto far balenare un assaggio della mia commozione. Scrivere lo scuotimento che la scena provoca. Voleva questo il grande Fëdor Michajlovič: strattonarci fino in fondo all'anima pietrificata dal ghiaccio di Ivàn. Misero Ivàn! Nella folle smania di onnipotenza, reprime la sua fragilità bambina e seppellisce nel ghiaccio del ragionamento la compassione e l'amore. Asserendo che “tutto è lecito”, e meditando freddamente il parricidio, egli manipolerà la coscienza del misero Smerdjàkov e farà di lui un assassino e un suicida.

Ma, specularmente al Cristo innanzi al Grande Inquisitore, davanti a Ivàn c'è Alëša. Come il vecchio cardinale, anche Ivàn sente ardere nel cuore il bacio ricevuto. La smania di onnipotenza per un po' si incrina. Il ghiaccio del cuore sembra disfarsi. La Leggenda termina col Grande Inquisitore che, come tramortito, lascia andare il suo Prigioniero “per le oscure vie della città”. Finito il drammatico racconto, anche Ivan si separa da Alëša prendendo una strada opposta a quella di lui. Ma nel salutare Alëša, Ivàn, con voce implorante, dichiara il suo bisogno di amore: “A me basta che tu sia qui, in qualche luogo, per non perdere la mia voglia di vivere”.

giovedì 23 settembre 2010

Sulla "sprezzatura" (da Baldesar Castiglione a Cristina Campo)

Ci si affanna per lo più nel corso dell'esistenza ad inseguire obiettivi svariati. Fantasmi di una felicità effimera, che ci rubano la vita. Capita poi, talvolta, di imbattersi in qualcuno che addita un “modo di essere” composto in se stesso, consistente di una levità sfuggente, di una “grazia” negligente, semplice e a un tempo nobilissima. Un vocabolo disusato esprime bene questa rara virtù: “sprezzatura”. Il suono della parola è duro e il senso è forte e associato al “disprezzo”. Se però ne studiamo la storia, scopriamo che la “sprezzatura” designa la qualità suprema del “Cortegiano” di Baldesar Castiglione, il cinquecentesco scrittore mantovano che nel suo trattato disegnò la figura del perfetto uomo di corte. La “sprezzatura” è la “grazia” senza “affettazione” che promana da un essere umano (Baldesar Castiglione, Il Cortegiano, I, 26). Colui che ne è dotato è completo in se stesso e trasvola la vita.

La “sprezzatura” consiste in un “essere pieni di vuoto”, e perciò lievi.

La pienezza lieve è la qualità della prosa di Cristina Campo, (Bologna 1924-Roma 1977). Quando leggo “Gli imperdonabili” non posso fermarmi. Volo. La densità del pensiero è un soffio di sollievo che “solleva”. Non chiede di essere capita questa scrittura, chiede l' “inspirazione”. Le parole penetrano come l'aria nei polmoni e sollevano il lettore in una regione più limpida e leggera.
Il capitolo intitolato “Con lievi mani” (Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, p. 97) è dedicato alla “sprezzatura”. Le frasi non descrivono, ma instillano gocce di grazia, con suoni e immagini simboliche. “Facilement, facilement” è la melodia dominante del testo. È la stessa melodia con cui Chopin invitava gli allievi a posare le mani sulla tastiera del clavicembalo, con grazia sciolta, quasi noncurante. E “facilement facilement” la voce di Cristina risuona dalla sua scrittura, "grafico" del suo cuore fibrillante. “Facilement, facilement” e “ con lieve cuore, con lievi mani / la vita prendere, la vita lasciare...” (Hofmannsthal).
La “sprezzatura” di Cristina è ancor più “facile” di quella di Baldesar Castiglione, che non riesce a superare un certo insistente estetismo. Per Cristina “prima di ogni altra cosa sprezzatura è infatti una briosa, gentile impenetrabilità all'altrui violenza e bassezza, un'accettazione impassibile,...un'ovvia indifferenza alla morte...la bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l'animo grande che ne è radice e l'umor lieto.”

“Grazia” rara la sprezzatura! Ma esercizio possibile in un'attenzione raccolta e penetrante in ogni “attimo fuggente”.
Della lettura di “Con lievi mani” serbo, inoltre, un'icona che amai moltissimo quando ero adolescente. Si tratta dell'immagine di un uomo - folletto, attore protagonista di storie avventurose e galanti, Gérard Philipe. Esile, con un ciuffo negligente sullo sguardo ridente in dolce sfida, segno della sua “sprezzatura”, come Cristina, Gerard trasvolò la vita in un sogno. http://www.youtube.com/watch?v=cxyg5-PUpKo

martedì 14 settembre 2010

La musica delle lingue, la poesia della traduzione e un esperimento per contestare la Riforma dei curricoli scolastici

In tempi in cui prevale il culto dell'immagine e la cura esasperata del corpo secondo stereotipi estetici che nulla hanno a che vedere con la bellezza, desidero soffermarmi sull'estetica e sulla bellezza dei suoni delle lingue, e sul valore che in tal senso assumono l'educazione linguistica in generale e lo studio delle lingue classiche in particolare, mediante il laboratorio di traduzione. L'ascolto polifonico della lingua educa il gusto e il senso dell'armonia in movimento nelle onde sonore delle parole, nella loro combinazione, e nella specifica bellezza di ogni lingua.
Mi è sembrato opportuno comunicare questi miei pensieri perché, con la Riforma dei curricoli dei Licei, lo studio delle lingue classiche e in particolare del latino, in cui affondano le radici culturali non solo italiane, ma dell'intera Europa (cfr. per esempio l'opera fondamentale di H. Curtius, Letteratura Europea e Medioevo latino) è stato drasticamente ridotto o addirittura eliminato, senza nessuna protesta degli intellettuali, senza alcun “chiasso pubblicitario” sui giornali o in televisione ad invocare le “radici linguistiche e culturali”, come per altri casi è strumentalmente avvenuto. E questo è un ulteriore segno della rozzezza culturale che impera ormai nel nostro paese.
Ma, senza attardarmi in vani discorsi di lode del passato o di lamento per l'ingiusto presente, dirò subito che ho tentato con i suoni delle lingue un piacevole gioco, non senza fatica, paragonabile forse alla gioia intenta del musicista quando traduce nelle sequenze di note le cose vissute e poi riascoltate nel cuore. Ho giocato con le immagini sonore della poesia, passando dall'italiano al latino, dai versi melodiosamente liberi di una poesia dannunziana di Alcyone, La sera fiesolana, all'esametro latino. L'ho fatto per invitare all'attenzione sull'esercizio di traduzione come esperienza multipla. La traduzione, infatti, oltre a sviluppare il linguaggio verbale e la competenza plurilinguistica, educa alla bellezza a partire dall'ascolto del suono della parola, il miracolo che ha generato tutte le meraviglie del sapere umano. E in principio la parola è puro suono. Non occorrono lunghi discorsi per dimostrare che la poesia è innanzitutto musicalità della parola. E nel suono stesso il “senso” è colto con un coinvolgimento sinestetico, ossia di tutti e cinque i sensi, e sentimentale. L'esperienza della traduzione, inoltre, insegna la pazienza e l'attenzione, educa la sensibilità e, mentre impone il rigore, spinge a trasgredire i limiti con l'immaginazione e stimola la creatività nel rimodulare in un nuovo testo i suoni e gli oggetti percepiti. È quindi importante che io tenti di riferire quanto sono riuscita ad osservare della mia esperienza. Mentre traducevo la poesia, seguendo lo schema metrico dell'esametro “mi trasformavo” nella concentrazione di un ascolto polifonico, in una attenzione consistente in un ad-tendere per accogliere un suono che evocasse il senso. Senza alcun dubbio la traduzione è un'attività poetica che trasforma chi la compie. È come se, nel tra-durre un testo, tra-ducessimo noi stessi oltre i limiti della comunicazione logico-espressiva, in una tensione di “comprensione” del tutto gratuita ed appassionata. Ho compiuto un' esperienza e mi piace comunicarla. Ho scelto l'esametro perché fu usato dai poeti greci e latini (tra gli altri ricordo Teocrito e Virgilio) nella composizione degli “idilli”, brevi e lirici “quadretti” di paesaggi naturali. L' “idillio” ha avuto grande fortuna nella nostra tradizione letteraria, conoscendo trasformazioni straordinarie, come è accaduto nella voce di Giacomo Leopardi, che negli “idilli” addensò il suo “pensiero poetante”.
“La sera fiesolana" io l'ho letta proprio come un ”idillio" in cui una voce panica promana dalle cose della natura intonando “una lauda” alla sera.
La traduzione naturalmente non è letterale. Il risultato dell'esperimento è imperfetto, ma grande è stato il piacere donatomi da questa “inutile” “eroica fatica”, la quale risulterebbe di certo incomprensibile, in ogni senso, per i ministri Gelmini e Tremonti. Perciò, in conclusione, mi piace trascrivere alcune frasi di Simone Weil: “L'intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio, devono esserci piacere e gioia. L'intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di apprendere è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Dove è assente non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che al termine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere. ...Gli studi scolastici sono uno di quei campi in cui è racchiusa una perla. Per questa perla vale la pena di vendere tutti i propri beni, senza trattenerne alcuno, al fine di poter acquistare il campo”. (S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi , Milano 2008, pp. 196 e 201)

Per suggerire la lettura metrica, ho segnato gli accenti ritmici. Leggendo, bisogna ricordare che nel verso, quando una parola termina in vocale oppure in -m preceduta da vocale (-am, -em, -um. ecc.) e la successiva comincia anch'essa con una vocale, può verificarsi l'elisione (caduta) della vocale finale della parola che precede. Se la parola che segue è una voce del verbo essere cade la e- di quest'ultima.

Faesulànus Vèsper

Mòllia vèrba tibì mea sìnt ad vèsperem amìcum,
sìcut pér moròs agitàntur mùrmure fòlia
lèniter ìn manibùs cuiùsdam quì ea càrpit
sùspensùs tacitùs scalìs nigrescèntibus àpud
àrborem àrgenteàm subtèr silèntia clàra,
cùm luna àdvenit àlba ad caèrula lìmina coèli,
àdventùque suò velàmina càndida pàndit
quà somniàntibùs nobìs somnium iàcet et àgri
nòcturnòque gelù se mèrsos lùmine sèntiunt
spératàmque ab eà pacem ét haurìre vidèntur.

Làudatùs pallènte tuo òre, sis càndide vèsper
cùmque tuìs oculìs umidìs ubi coèli aqua tàcet .

Dùlcia vèrba tibì mea sìnt ad vèsperem amìcum.
Lànguidus ùt fugièns super hèrbis ìncidit ìmber
dùm lacrimàns guttìs levibùs ver dùlce salùtat.
Íncidit ìmber ulmòs, moròs, vitèsque virèntes.
Íncidit ìn pinì digitòs, ludèntes ad àuram.
Íncidit ìn frugès non adhùc flavàs neque acèrbas .
Íncidit ìn fenùm quod fàlcem iam pàtitur àcrem.

Làudatùs veste olènte tuà sis ròscide vèsper!
Cìnctus té cingìt, sicut iùnco cìngitur fènum.

Dìcam amorìs tibi règna ad quaè nos ìncitat àmnis
cùius aèternaè fontès e vetèribus ùmbris
àrborum orànt in mòntibus àltis, ét tibi dìcam
quò sanctò mystèrio còlles flectàntur ad àera
lìmpidum, ét tibi dìcam quaè dicèndi volùptas
còlles pùlchriorès faciàt humanìs desidèriis
òmnibus, ét sempèr adeò silèntiis gràtos
ùt videàtur eòs posse ànima màgis amàre.

Làudatùs proptèr mortèm, sis lìmpide vèsper!
Sìdera prìma micànt, in coèlo ardèntia sìgna.

La sera fiesolana (Gabriele D'annunzio)

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscío che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su 'l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne e l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incúrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

martedì 31 agosto 2010

Suoni e “sensi” di settembre.

Nei suoni dei nomi dei mesi risuonano i “sensi”.
Finisce Agosto spossato nella duplice “o".
Di tre “e” ridente incede settembre.
Tremano le sue dita tra i pampini
e scoprono ori e rubini splendenti.
Nell'aria qualcosa di nuovo brilla.
Si prepara una rinascita
anche se non è primavera.
La frescura ristora le membra
fiaccate dalla canicola del solleone.
Trema nel cuore settembre e spera
speranze mature d'autunno.

É tempo di riprendere il viaggio con nuova lena.
La smania di andare a stento è domata,
perché settembre annuncia una nuova
stagione di frutti profumati.
Sotto piogge canterine la terra
si prepara ad una nuova fecondazione.
Instancabile la vita palpita nelle zolle.
Non c'è stagione che non frema d'amore e di vita!

È inquieto settembre. Pensoso. Medita la fuga dal ritorno al “lavoro usato” mentre si sveglia dal torpore estivo.

Che faranno gli Italiani in questo settembre che torna carico di attese! Si attarderanno nelle chiacchiere pettegole sui litigi tra medici, sulle hostess di Gheddafi, o sulle altre notizie “rilevanti” dei media, esaurendo la loro energia in accorate e reiterate condanne moralistiche? O, “rivendicando sé a se stessi”, trasformeranno l'energia in progetti buoni e belli confidando nella loro volontà inalienabile?

A Settembre riaprono le scuole. Che faranno gli insegnanti? Si assopiranno tacitamente piegati ai “diktat” di una politica dissennata e si consegneranno ancora una volta inerti alla burocrazia, o con voce libera e chiara rivendicheranno autorevolezza pedagogica e culturale, entusiasti di iniziare un viaggio di esperienze condivise, alla luce di una risvegliata coscienza civica? Penseranno a rinchiudersi nel privilegio dell'orticello conquistato, o si apriranno ai problemi di chi ha perso o perderà il lavoro, di chi guarda accorato al futuro? Diverranno consapevoli del fatto che la trasformazione positiva di questo critico momento storico richiede il loro impegno di studiosi, la loro testimonianza culturale ispirata ai valori umani e alla solidarietà civile? Saranno tanto lungimiranti da capire che una società più giusta, un mondo più pulito e vivibile per tutti dipendono anche dal loro fare, partecipare, condividere?
Penso che nei collegi dei docenti dell'imminente primo di settembre si delineeranno le sorti della scuola e del contributo di questa alla cultura dell'Italia per il prossimo futuro. Non so cosa si leggerà nei volti degli insegnanti domani. Come faranno il loro ingresso nell'aula assembleare. Come si saluteranno. Sarà uno sciamare scontento? Disincantato? Preoccupato? Prono? Sarà un frusciare di abitini estivi che esaltano le abbronzature delle signore e un blando ed educato annuire di signori distratti da altre preoccupazioni? Un cicaleccio di convenevoli tra i sospiri di rimpianto per la brevità del tempo della vacanza? O si riunirà un'assemblea di donne e di uomini attenti e partecipi alla discussione, entusiasti di dedicarsi allo studio e alla ricerca e di rivendicare spazi e tempi per condividere idee e progetti liberi?
Chissà, forse nei collegi dei docenti del primo di settembre, invece di occhiate guardinghe agli orari accompagnate da accorate e lamentose richieste, si coglieranno, finalmente, sguardi fiduciosi e si ascolteranno proposte sagge, idee innovative, progetti di solidarietà, pensieri liberi di liberi educatori che sono fieri di avere tra i loro padri culturali Cesare Beccaria e Vincenzo Cuoco. Se così avverrà, sarà l'inizio di un settembre di speranza. E non solo per la scuola.

domenica 22 agosto 2010

Geometrie della Bellezza

Capita talvolta di giungere in luoghi mai visti prima che ci accolgono come se fossero a noi i più familiari. Sono spazi definiti eppure pregni di vita rarefatta da un'aura d'eternità. Lì il silenzio circonfuso parla chiare parole da intimo amico. Sono luoghi quasi incolori che sembrano aver accolto e confuso tutti i colori, in tutti i toni possibili. In essi la polvere del tempo si posa come l'eternità. È bella la polvere della terra! In ogni granello l'infinito della storia passata è in attesa di granelli fratelli a venire.
Mi sono trovata di recente in un posto così. È una terrazza che l'uomo ha appena ritoccato nella natura. Sul fianco di una rupe boscosa di sempreverdi. Un pavimento di mattoni grigiorosa delimitato da una ringhiera di ferro incorniciata da quattro pini silvestri. Tra le finestre dei pini, oltre la ringhiera, la piana si stende disegnata da un reticolo di multiformi quadrilateri armoniosamente sfumati nei toni caldi del giallo pacato, del dorato marrone, del verde pudico. Oltre la geometria dei campi si intravede una curva d'azzurro, mare o lago non si saprebbe dire. Sulla linea dell'orizzonte la piana confina con la curva del cielo, la vista più rara a vedersi, perché di rado gli occhi si levano al cielo.
Sospesi su questa terrazza non è necessario alzare lo sguardo per vedere il cielo. L'eterea sfera avvolge la terrazza e il disegno dei campi e la rupe boscosa e la curva d'azzurro, mare o lago, laggiù. Un microuniverso palpitante nel silenzio!

Ho sempre amato luoghi che paiono disegnati dalla mano di un sapiente geometra!

La geometria non esclude l'immenso sconfinato. La purezza delle forme rigorosamente definite e la musica delle simmetrie alludono ad una infinita quanto irraggiungibile perfezione.

È per questo forse che mi attrae Piero della Francesca, il pittore di geometrie metafisiche della natura e della storia. Le linee di Piero disegnano poligoni regolari e cerchi perfetti negli spazi e nei corpi, assecondando uno sguardo capace della precisione della riga e del compasso. Anche il colore si distende, deciso, secondo corrispondenze studiate e ostinatamente perseguite. Ne risulta un'armonia compiuta da una volontà che insegue il tracciato razionale della perfezione e diffonde una musica rasserenante, geometrica anch'essa. Si susseguono ritmi di quadrilateri e triangoli che d'improvviso si flettono nelle dolci linee sinuose delle curve di un corpo o nella perfetta circolarità di un'aureola.

Me ne sarei stata per ore nella minuscola e spoglia stanza di Monterchi dove è stato collocato l'affresco della “Madonna del parto”, umanissima nel lieve incurvarsi all'indietro sulla schiena, col braccio sinistro piegato a sostenere il fianco e la mano destra delicatamente poggiata sul grembo, nel punto in cui la sopravveste azzurra è slacciata e forma un rombo oblungo, quasi uno squarcio luminoso sul mistero della maternità. Il corpo ha la semplice e fresca maestà di una giovane popolana. Appaiono come due fanciulli del popolo anche gli angeli laterali, in perfetta simmetria alternata di forme e colori, che sostengono la tenda aperta su un palcoscenico essenziale.
La scena rappresenta una maternità consacrata dalla geometria di Piero, sobria e surreale a un tempo. Il volto della mamma è purissimo nell'ovale perfettamente delineato in una compostezza metafisica che nulla sottrae al sentimento della donna.
Nel disegno di Piero traspare la dolce geometria del paesaggio Toscano, la stessa che i miei occhi hanno interiorizzato dalla magica terrazza, una delle tante della terra di Piero.
Le curve dei poggi, il reticolo ordinato e dolcemente policromo dei campi, i triangoli dei cipressi che puntano al cielo sono trasfigurati nelle forme perfette dei racconti del pittore di Sansepolcro.
L'affresco della “Madonna del parto” è dipinto coi colori di vedute familiari.
Il fondale della scena si ispira di certo ai muri in pietra del paesaggio aretino. Tuttavia, il verde della tunica di uno dei due angeli e delle ali dell'altro come l'azzurro della veste della Madonna e il rosato diafano dei volti, pur richiamando i colori del medesimo paesaggio, emanano una luce che disancora dalla realtà i volumi dei corpi permeati da una trasparenza che li rende quasi inconsistenti.
Una terrazza protesa sulla piana, quasi sospesa nel cielo, e l'affresco di Piero, specchiatisi negli occhi, si sono con-fusi, trasfondendo nei sensi e nel cuore l'essenza di una pacata, semplice, bellezza ristoratrice.

domenica 1 agosto 2010

“Il carteggio Aspern”: un libro “sulla vita e sull'arte”

Talvolta immersi in una lettura ci aggiriamo in continuo sussulto nei chiaroscuri della coscienza e nei tormenti dell'anima. Assumiamo lo sguardo dolorosamente penetrante di un qualche personaggio reale e ideale insieme, apprendiamo quanto imprevedibili siano le creature umane e inafferrabile la vita. Se è così, stiamo di certo leggendo un libro scritto immediatamente con gli occhi. Henry James è un autore capace di questo. Il suo stile ha la mobilità dello sguardo. Leggerlo equivale ad osservare il dentro e il fuori di noi investiti da una convulsa sensibilità. Dalle atmosfere ridenti e serene di una tenuta inglese immersa nel verde rugiadoso e fiorito di un prato Henry James è capace di trasportarci nella penombra livida di un antico palazzo romano o nella perfezione rinascimentale, ma satura del sentore di antiquariato, di una villa in pieno sole su di un poggio fiorentino. Pervasi da una pungente amarezza sfogliamo la margherita dell'esistenza in “Ritratto di Signora”, colpiti al cuore per sempre da Ralph, biondo, alto, esile, freddamente sorridente nell'ombra cupa della morte, sua instancabile minacciosa compagna, ma appassionato nel profondo, perdutamente innamorato della cugina Isabella e dell'opera d'arte che potrebbe essere la sua vita. Quella vita che infine si fissa in un tragico “ritratto di signora”.
Dopo il lunghissimo e famoso “Ritratto di signora”, lo scrittore americano, innamorato dell'Europa e dell'Italia, scrisse un romanzo, brevissimo ma intenso e carico di “senso”: “Il carteggio Aspern”. Il titolo contiene l'oggetto di una vera e propria “quête”, ovvero della spasmodica “ricerca” del carteggio d'amore di un immaginario poeta spentosi ancora giovane. James inventa infatti la storia di un “letterato” americano, fanatico ammiratore del conterraneo poeta romantico Jeffrey Aspern, “grande nome del secolo”, l'ottocento, “quando il secolo era ancora giovane”. Di Aspern l'anonimo studioso, dopo averne ricostruito la vita e gli amori, scopre che la musa più importante del suo canto è ancora viva e dimora in Venezia, dove giunse giovinetta dall'America.
Nelle prime pagine del racconto ci ritroviamo proprio lungo un canale di Venezia. Da una gondola assumiamo il punto di vista del “cercatore” in stupita attesa davanti a un “vecchio palazzo grigio e rosa, non particolarmente antico” e dall'aria “non tanto di decadenza quanto di pacata rassegnazione”. Veniamo subito a sapere che in questa “malinconica” dimora vive, insieme con la nipote Tina, l'ormai decrepita Miss Juliana Bordereau, la fiamma del defunto estimatissimo poeta Jeffrey Aspern. L'anonimo “letterato”, una “canaglia di pennaiolo”, come lo apostroferà Juliana in una magistrale scena culminante, escogita un piano diabolico per penetrare in quel palazzo della memoria e per approfittare di un simbolico giardino imprevedibilmente sbocciato in mezzo alla laguna. Il “pennaiolo” si dà persino un falso nome, che in verità è l'unico che ci viene concesso di conoscere. Egli brucia di curiosità per il passato del suo poeta. È divorato dal desiderio di entrare in possesso delle lettere scritte da Jeffrey a Juliana e da costei custodite nell'antica e ombrosa dimora. Non vive che per quelle carte “il pennaiolo canaglia”. Arde dalla febbre di far luce sul passato dell'ammiratissimo Aspern e di raccontarlo con la sua arte. Perciò egli non si fa alcuno scrupolo nel tessere una tela di inganni. Senza morsi di coscienza si serve di Miss Tina, la nipote appassita nell'ombra del vetusto palazzo e della passata gloria della zia.

I tre personaggi disegnano un triangolo in cui l'amore viene ad assume sensi differenti.

A un vertice è la decrepita Juliana che cela con un velo verde gli occhi folgoranti che in un tempo lontano incantarono il “divino” Jeffry Aspern. Juliana è il simbolo decaduto di un passato amore, fantasma sigillato in un misterioso carteggio gelosamente custodito come unica testimonianza della poesia sublime che ella stessa ispirò.
Al vertice opposto si trova l'anonimo “pennaiolo” ardente di un amore freddo, quello “antiquario” del biografo critico la cui arte attinge alla vita e all'opera altrui senza nessuna pietà.
Al vertice centrale è Miss Tina, l'unica creatura viva e vera, sebbene si mostri sfiorita senza essere mai sbocciata nell'ombra in cui l'ha relegata lo splendido isolamento della zia.
Aldilà del dimesso aspetto avvizzito e del contegno impacciato, miss Tina è dotata di una freschezza inaudita, di un'autenticità sconosciuta, di una dignità nobilissima, e, soprattutto, di una vitalità sorprendente. Con l'arrivo dello studioso nella grande casa addormentata Tina si risveglia.
Mite, ingenua e sognatrice, ma dotata di un imprevedibile senso della realtà, Miss Tina mi sembra la vera musa di James.
Nella finzione romanzesca Miss Tina rappresenta l'imprevedibilità di un'esistenza reale aldilà della fissazione dell'opera d'arte e degli schemi rigidi dei giochi di ruolo della vita.
Ancora capace di sognare e di stupirsi mentre siede ad un tavolino del Florian insieme all'uomo che l'ha risvegliata dal letargo della sua dimora, Tina ama gratuitamente mentre fornisce con sguardi eloquenti gli indizi per il ritrovamento del misterioso “carteggio Aspern”. È Tina l'unica creatura reale del presente. Il suo cuore palpita davvero. Ella è la custode generosa dell'avida zia, di quell'Euridice mummificata sopravvissuta al suo Orfeo. Dall'Ade in cui è rinchiusa Miss Tina, tornata alla vita, spera di uscire grazie all'amore del novello Orfeo lì approdato.
Ma l'anonimo scrittore, controfigura problematicamente emblematica dello stesso James, insegue il passato. Egli è avido di quel passato come materia della sua arte.
Mi sembra, quindi, che il racconto di James ci metta davanti al tragico tentativo di dare senso alla vita attraverso i fantasmi della mente. Ed è Tina a far dileguare i fantasmi. È lei infatti che brucia ad una ad una le pagine del “carteggio Aspern” e mostra come il mondo sia costituito di creature reali imprevedibili.
Nella conclusione del racconto Tina appare risvegliata, ringiovanita ed abbellita. Con dolcezza ella rivela il suo gesto all'incredulo ed esterrefatto “pennaiolo” condannato per il resto della vita a piangere la perdita del feticistico “carteggio Aspern".

sabato 24 luglio 2010

La stanza di Suor Elisa e la sconosciuta poetessa sorella di Shakespeare

Il profumo della primavera inondava la grande sala laboratorio. Il pavimento di marmo porpora tirato a lucido come uno specchio rifletteva il mobilio solido, sobrio e austero addossato alle linde pareti chiare. Sui ripiani delle credenze e delle consolle vetri trasparenti traboccavano di rose inebrianti, recise di fresco dai rosai del giardino, curato nel suo naturale rigoglio, che si intravedeva aldilà della grande sala, dalla porta che si apriva sul cortile interno della casa convento.
Come cascate spumeggianti da giovani grembi si riversavano sulla lucida porpora marmorea bianchi lini, sui quali dita trepidanti di pensieri celati diradavano la trama in impalpabili trine o disegnavano tralci fioriti, sotto lo sguardo vigile ed esperto delle suore pazienti, ma inesorabili, nel correggere anche il più impercettibile errore dell'ago che la giovane mano, distratta da un'emozione del cuore, aveva guidato con cura negligente.
Brune, bionde, o castane, le teste chine sui lini si sollevavano ogni tanto con un improvviso guizzo birichino. Vividi occhi ridenti di complicità s'incrociavano furtivamente.
Dalle ampie ed alte finestre insieme alla brezza fiorita entrava il vociare pacato dei passanti.
Suor Elisa, le mani celate nelle pieghe della tonaca, aleggiava ironica e saggia nella sala.
Ora so che lei, cuore sapiente, leggeva i pensieri irrequieti che si agitavano oltre le chiome composte delle giovani ricamatrici.
Ora so che anche lei era una donna!
Una volta mi prestò un romanzo tirato giù da uno scaffale della biblioteca per signorine che si trovava nel suo studio. Il titolo non me lo ricordo. Ma nitido è tuttora davanti a me nella sua copertina di tela avorio decorata da una cornice dorata. Le pagine cucite, scorrendo, trattenevano la storia d' un casto amore!
Era la tacita empatia di suor Elisa!
I turbamenti di una adolescente sognante, che lei di certo percepiva, potevano a suo avviso placarsi di attese convenzionali ed attraenti, come si conveniva a secolari generazioni di educande.
Oggi in quella grande stanza in intima penombra io entro con la “potenza” della mente che, mirabilmente, anche ora diffonde tutt'intorno promettenti profumi di primavera!
È questa facoltà della mente a rinnovare eternamente la stagione dell'incandescenza della materia! La stagione in cui l'energia che siamo esige più che mai di liberarsi, di appagarsi, di trovare la felicità! Il tempo in cui non si sono fatti i conti con la realtà e la vita si offre “indelibata, intera”!
Suor Elisa li aveva fatti questi conti, e, forse, lei, come Virginia Woolf, sapeva che una donna per liberare la poesia del suo essere necessita di “cinquecento sterline di rendita” e di “una stanza tutta per sé”. E, tutto sommato, suor Elisa quella stanza se l'era a modo suo procurata e la metteva a disposizione delle giovani donne che varcavano per qualche tempo la soglia della suo convento, un po' collegio e un po' scuola di ricamo.

Da poco ho finito “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf.
Dalle pagine del libro la mente ha evocato, fin quasi a materializzarla, la stanza di suor Elisa. Se questo è accaduto vuol dire che quella è stata l'unica “stanza tutta per me” della mia vita, sebbene non la abitassi da sola, e non per scrivere racconti, ma per educarmi al ricamo. In fondo, tuttavia, l'esperienza non mi pare molto diversa da quella delle scrittrici inglesi ricordate da Virginia nel suo libro. Anche loro non avevano “una stanza tutta per sé”. Scrivevano furtivamente “nella stanza di soggiorno comune”. (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. a cura di Maria Antonietta Saracino, Einaudi, Torino 1995, p. 137).
Non è strana la coincidenza tra ricamo e scrittura nella vita delle donne.
Nel “soggiorno comune”, molto probabilmente, Jane Austen mentre ricamava osservava con attenzione la realtà circostante e ne coglieva quell'essenza ulteriore che, posato il lavoro ad ago, ricamava in pagine immortali con la sua scrittura nitida e sorridente.
Ripenso ora con ammirazione anche a Jo, la protagonista di “Piccole Donne” di Louisa May Alcott. Jo, forse come era possibile per Louisa stessa, ha per sé una soffitta in cui, accoccolata davanti allo scrigno dei ricordi e delle speranze, può sfogare “ la mente incandescente”. Jo è davvero fortunata! Le è addirittura permesso di mettere in scena nel salotto di casa i drammi da lei composti, e le riesce persino di guadagnare denaro con i suoi racconti.
Il romanzo della Alcott dimostra che già nell'ottocento in America la donna godeva di un angolino tutto per sé dove poteva liberare “la mente incandescente”, sebbene la sua famiglia non navigasse nell'oro.
Nell'Italia degli anni sessanta per la maggior parte delle donne la soffitta di Jo era un sogno impossibile. Anche se avevano il privilegio di andare a scuola, non era certo lì che potevano permettersi di sfogare la mente. Erano tempi in cui si imponevano trattazioni noiosissime a tema senza nessuna cura per la riflessione sulla scrittura come esperienza “ideativa” di un testo personale, di ricerca della forma del sé nell'interpretazione del mondo interno ed esterno, rinvenibile, magari, anche in quello inventato, ma non per questo meno vero, della poesia. E forse, per lo più, è così che vanno ancora le cose a scuola.
Una stanza tutta per sé” è un metaracconto in cui Virginia con “mente incandescente” esplora la scrittura femminile. Il suo sguardo indagatore scorre le righe dei libri tirati giù dalla sua biblioteca alla ricerca di una parola luminosa che illumini il rapporto tra donne e romanzo nella scrittura di autrici a lei care, ed anche a me. In controluce ella riporta i giudizi severi dell'altro sesso, ma non se ne lascia toccare. E neppure indulge ad una partigiana e sciocca esaltazione della donna. Né si rifugia nella giustificazione della parola negata. Inventa, invece, una sorella di Shakespeare “altrettanto desiderosa di avventura, altrettanto ricca di fantasia, altrettanto impaziente di vedere il mondo quanto lo era lui”. (Una stanza tutta per sé, p. 97).
E di questa poetessa, sorella di Shakespeare, Virginia immagina una tragica fine. Scappata di casa per sfuggire alla nozze desiderate per lei dai genitori con il figlio di un ricco mercante di lane, sedotta da un attore impresario, “- chi mai potrà misurare il fervore e la violenza di un cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna? - si uccise, in una notte d'inverno, ed è sepolta nei pressi di un incrocio, là dove oggi si fermano gli autobus vicino ad Elephant and Castle. (Una stanza tutta per sé, p. 99).
Ora mi chiedo se il battito del cuore è sessuato, se lo è l'accendersi della mente nell'attimo in cui coglie il balenio di una qualche verità.
Anche Virginia si chiese “se nella mente esistano due sessi che corrispondono ai due sessi del corpo, e se anche questi devono unirsi per giungere alla completa soddisfazione e felicità”. (Una stanza tutta per sé, p.201). Ed è ancora lei che tenta per me una risposta commentando un pensiero di Coleridge: “Forse Coleridge intendeva proprio questo quando diceva che la mente grande è androgina. Ed è quando ha luogo questa fusione che la mente è del tutto fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà. Forse una mente che sia interamente maschile non è in grado di creare, proprio come una mente che sia interamente femminile, pensavo... Egli intendeva dire, forse, che la mente androgina è risonante e porosa; che trasmette emozione senza difficoltà; che per natura è creativa incandescente e indivisa”. (Una stanza tutta per sé, p.201).
Incandescenza e completezza! La creatività è propria di una mente indivisa!
Quasi di certo da questa idea fu ispirato il romanzo della Woolf “Orlando”, emblematica epopea di una metafisica creatura androgina che trasvola i secoli.
È dell'essere assoluto tale completezza. Agli uomini e alle donne reali tocca lo stato incompleto e l'inseguimento della felicità, raggiunta solo, forse, nello stato di grazia di una mente incandescente, in cui, pur nella sua specificità maschile o femminile, avviene quella “fusione” che le concede di diventare “fertile” e di “fare uso di tutte le sue facoltà”.
Uno stato di grazia tale è gioia pura, occhio chiaro e sorridente nel “fare i conti con la realtà”, alieno da quel rancore di cui parla Virginia e dal quale poche opere femminili sono esenti.
E forse il nodo doloroso che le donne devono ancora sciogliere è questo: fare i conti con la realtà senza rancore, e senza cadere nella trappola della competizione, di una gara da vincere per conquistare un premio.
È necessario evitare le “seduzioni” della carriera che esigono il tradimento dei sogni, altrimenti le indispensabili “cinquecento sterline” che le donne hanno conquistato non saranno sufficienti per edificare una “stanza tutta per sé”, che è in definitiva uno spazio libero tutto interiore dal quale si può attingere l'energia per l'attenzione alla realtà e per il superamento dei suoi limiti angusti. Se si vuole proiettarsi verso questa liberazione autentica, bisogna giungere a contemplare “ciò che rimane una volta gettata aldilà della siepe la buccia vuota del giorno”. (Una stanza tutta per sé, p. 225).
Ritorno nella stanza di suor Elisa. La suora, fatalmente, porta il medesimo nome della appassionata fanciulla che circa un millennio fa, dal convento dove era rinchiusa, scrisse lettere brucianti all'amato Abelardo. Dov'è ora la suora, cuore sapiente? Dove sono tutte le compagne di quelle ore fertili di attenzione nel ricamare trine e tralci fioriti? Quell'esercizio di paziente precisione le preparò a fare i conti con la realtà e a far rinascere in loro la sconosciuta poetessa sorella di Shakespeare? Credo di sì. E ora mi sembra di averle accanto.
Sono le donne che incontro ogni giorno
alle quali, concludendo il suo libro, Virginia si rivolge dicendo:
“Ora è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno mettendo a letto i bambini... Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l'avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell'oscurità, vale certamente la pena”. (Una stanza tutta per sé, p. 231 e 233).

giovedì 15 luglio 2010

Shehrazade e l' Esame di Stato

Shehrazade è la principessa persiana che salva tutte le donne del suo paese dall'odio spietato del re Shahriyar. Costui, infatti, ferito dal tradimento della prima sposa, è diventato preda di un insaziabile desiderio di vendetta. Accecato dall'odio verso le donne, ogni giorno si sceglie una moglie che uccide spietatamente il mattino seguente alla prima notte di nozze. Perciò la gentile e saggia Shehrazade decide di offrirsi al re, confidando nella possibilità di sciogliere dall'odio il suo cuore e di salvare così dalla morte tutte le fanciulle di Persia. Divenuta sposa di Shahriyar, sul far della notte, la principessa avvince il re coi fili di una sapiente narrazione. All'alba la storia non è terminata. Allora lo sposo regale decide di rinviare la morte di Shehrazade per conoscere l'epilogo di quell'intreccio che l'ha catturato. Accade così che l'incantevole narratrice inanella di notte in notte una sequela infinita di racconti, grazie ai quali la sua morte viene rinviata per “mille e una notte”, finché il re, guarito da quelle labbra salvifiche, cede per sempre all'amore per Shehrazde e per la vita.
La vicenda che ho in sintesi narrato è la cornice dell'opera fiabesca più famosa al mondo, Le Mille e Una Notte. Dalla sua struttura e dal suo significato (l'incanto salvifico del racconto) sono stati ispirati molti narratori, finanche, probabilmente, il nostro Giovanni Boccaccio nella composizione del suo Decamerone.
Mi sembra che il senso universale dell'emblematico labirinto di storie delle Mille e Una Notte stia nella rappresentazione della vita umana protesa alla conoscenza attraverso l'ascolto della parola di un'amante narratrice. L'etimologia del termine “narrare”, del resto, ci illumina sulla funzione conoscitiva dell'arte del racconto. Il vocabolo deriva, infatti dal latino “gnarus” = “conoscitore, esperto”, aggettivo a sua volta generato dal verbo “gnosco / nosco” = conoscere. Analogamente se consideriamo il termine “storia”, ne rinveniamo il senso nell'etimo greco ἱστορία (historìa) da ἵστωρ (histōr) = “che conosce”, ricollegabile a οἶδα (oida) = “io so per averlo visto”.
Shehrazade è quindi dotata di una parola sapiente che “istoria” la vita con l'incanto della narrazione”. È colei che commuove trasportando il re nel bel mezzo della vita, inducendolo a conoscersi negli intrecci di innumerevoli racconti. Colui che ascolta compie un'esperienza del mondo e apprende a conoscere se stesso. La parola sapiente di Shehrazade nomina gli “oggetti” della vita e li anima con l'incanto di un'evocazione dalla notte della coscienza confusa e inconsapevole di un “inesperto bambino” che si dibatte negli istinti e nelle passioni cieche e ferine della bestia primordiale.
L'arte della narrazione è pertanto la prima “scuola” di conoscenza. Shehrazade è una simbolica maestra di conoscenza.
Povera Shehrazade se capitasse d'improvviso nel bel mezzo di un Esame di Stato! Le toccherebbe ascoltare l'inanellarsi di vuote parole in cui annasperebbe invano alla ricerca di un senso! Si chiederebbe chi abbia mai ridotto i suoi vivi racconti negli insulsi frammenti delle cosiddette “mappe concettuali”! Ascolterebbe inorridita ed incredula elucubrate proposte di tabellate “griglie di valutazione”, partorite da dotti e magniloquenti sostenitori di novelle “magnifiche sorti e progressive”! Non potrebbe in alcun modo lasciarsi prendere dall'ascolto di qualche bella “istoria” dipinta nei volti giovanili innanzi a lei, ma sarebbe costretta ai calcoli dei numeri incasellati in una tabella sulla quale diverse paia di occhi appuntati controllano al di sopra e al di sotto di quale totale siano o non siano attribuibili i punti del “bonus”! Sembrerebbe alla povera Shehrazade di trovarsi in un bazar a contrattare per cianfrusaglie scompagnate e logore raccattate ed ammucchiate alla rinfusa da un mercante rozzo ed incurante ed ignorante della varietà e del pregio della materia.
Delle storie degli uomini stupiti dall'universo e delle loro domande che inseguono la verità non importa più a nessuno in quel rito inutile che è l'Esame di Stato, ovvio epilogo di una scuola immiserita e svilita non solo dalle “riforme” informi di legislatori ignoranti ed asserviti al potere di un'iniqua economia gestita da venditori di fumo, da imbonitori di masse pronte a lasciarsi abbindolare come scimmie ammaestrate in un circo di infimo ordine!
Tutta la scuola è salita sul carrozzone di questo circo triste! E lo spettacolo si svolge sotto un tendone rappezzato malamente e diretto il più delle volte da maldestri domatori, da giocolieri e prestigiatori di illusoria apparenza! Gli artisti del circo sono ridotti a “risorse umane” pronte a svendere la libertà della loro sapiente creatività ai calcoli dei budget, delle griglie, delle rendicontazioni per i monitoraggi, degli standard da far apparire per appiccicarsi qualche “bollino di qualità” riconosciuta sulla base di una incomprensibile statistica di astratti dati numerici!
E allora, riprendendo la domanda conclusiva dell'amico Pino nel suo ultimo post, “ Auto in corsa senza conducenti!”, leggibile su in-crocivie.com, mi chiedo: “come mai” nella scuola “ci tocca essere “guidati” da un personale così inadeguato di fronte alle sfide e anche alle promesse possibili del nostro tempo?”
So formulare soltanto un auspicio. Che si diffonda di nuovo, quanto prima, la sapiente parola di Shehrazade ispirata dal sacrificio e dall'etica “leggera” dell'amore!

martedì 6 luglio 2010

Scappa Cenerentola! Sfuggi alla madrina!

La semplicità della fiaba fa sorridere. Può sembrare banale e allo stesso tempo impossibile. Roba da bambini che facilmente sono ingannati dalle storie fantastiche.
Nella fiaba il bene e il male, il brutto e il bello hanno forme semplici grazie all'esagerazione. I personaggi sono funzionali allo schema dei valori. L'eroe compie un viaggio di formazione con esito positivo.
Tante fiabe famose raccontano le vicende di un'eroina. Tra le più note c'è quella di Cenerentola. Nel disegno dell'intreccio e nei ruoli dei personaggi di questa fiaba emergono i buoni e i cattivi sentimenti, le qualità belle e quelle brutte.
Cenerentola è umile, obbediente, paziente, solerte, generosa, amica dei semplici e, soprattutto, fiduciosa.
Le sorellastre sono superbe, arroganti, insofferenti, sfaccendate, invidiose, determinate e sicure del successo.
Certo, nella fiaba manca il cosiddetto tuttotondo, la verosimiglianza psicologica. Ma se ricomponiamo in noi le funzioni semplici di protagonisti e antagonisti il tuttotondo si forma. Senza contare il fatto che nelle funzioni ci sono esperienze universali generate dal gioco della vita e dai ruoli che in questo gioco ci tocca giocare.
Quello di Cenerentola è senz'altro uno dei ruoli più ricorrenti nell'universo spaziotemporale al femminile. Per scelta o per destino.
Non sempre però la storia di Cenerentola è a lieto fine. O almeno così pare. Senza dire poi del disprezzo che patisce Cenerentola! L'espressione “è una cenerentola!” equivale alla mortificazione di tutte quelle “virtù” che il personaggio / funzione vorrebbe, invece, trasmettere. Forse la funzione di Cenerentola è la più mortificante tra tutte quelle dei personaggi fiabeschi.
Non so se gli studiosi della fiaba hanno mai pensato che a Cenerentola viene del tutto negata una metamorfosi autentica, specialmente nella versione narrata da C. Perrault.
Quando le sorellastre vanno al ballo dato dal principe lasciano a casa Cenerentola triste e sola. Alla festa lei non potrà partecipare!
Mi piacerebbe proprio che la fiaba finisse qui!
E invece no. Cenerentola ha una madrina che trasforma una zucca in carrozza, i topi in cavalli e cocchiere, le lucertole in lacchè. E, per finire, la madrina fatata con un tocco della sua magica bacchetta muta i cenci di Cenerentola in uno splendido abito da ballo e le sue logore ciabatte in luccicanti scarpine di vetro. Cenerentola, allora, con l'aiuto della madrina sembra cambiarsi in una leggiadra e seducente fanciulla. Sulla carrozza vola al castello in festa. Compare nella sala da ballo facendo tutti trasecolare. Il principe danza solo con lei. La rincorre allo scoccare della mezzanotte per tre notti di seguito. Nella terza fatidica notte egli riesce a tenersi un pegno materiale di quella magica quanto fuggevole bellezza: una delle scarpine di vetro persa da Cenerentola in fuga.
Quella scarpina simboleggia la fragilità dell'incantesimo. È l'inconsistenza stessa di una metamorfosi indotta. L'epilogo della fiaba è universalmente noto. Il principe sposa Cenerentola.
Ora che ci penso, questa è proprio una brutta storia!
Preferirei che Cenerentola si liberasse della madrina e scappasse di casa. In caso contrario sarebbe meglio che continuasse ad essere per tutta la vita la cenciosa Cenerentola.
Solo se Cenerentola, invece della magia della madrina, trovasse la magia del sé, il compimento della fiaba sarebbe felice. Quel tocco magico della bacchetta fatata avverrebbe nell'attraversamento della vita, nel vivere sul proprio corpo tutte le prove del viaggio, nel sorridere delle prove e dello stesso ruolo di Cenerentola!

sabato 12 giugno 2010

L'amicizia è una relazione poetica

Non so se tra le tante pagine scritte sull'amicizia sia stato mai considerato il suo valore poetico. O almeno non me ne ricordo. Di certo l'amicizia è “una delle più grandi consolazioni” della nostra vita. Chi vive autenticamente l'essere amico è beato. L'amicizia, infatti, è amore del tutto disinteressato. Il piacere che ne deriva consiste essenzialmente nella conoscenza dell'amico e nella corrispondenza affettiva che trascorre in un dono scambievole di pura libertà. Comunemente si parla della “condivisione” vissuta dagli amici. Si sottolinea, per lo più, che l'amicizia è il conforto nel dolore e si narrano, esemplarmente, episodi di mutuo soccorso tra amici caduti nel bisogno.
A me, invece, piace descrivere lo stato di beatitudine che si raggiunge nella condivisione di esperienze intellettuali, nei percorsi di conoscenza compiuti nella relazione con l'amico. E questo mio desiderio nasce dall'esperienza dell'amicizia. Quanto di buono e di bello fa parte di me si è compiuto nelle relazioni di straordinarie amicizie! L'amicizia autentica ricolma di bene! Per questo, essa genera uno stato di benessere fecondo di bene contagioso. I veri amici sono “beati”! Sono “pieni di ogni bene”. L'origine della parola beatitudine è nel latino “beatus” che corrisponde nel significato all'aggettivo greco μάκαρ (màkar), qualità propria degli dei, stato di felicità generato dal sentirsi “ricolmi di ogni bene”. Ma questi “beni”, più che posseduti, sono assimilati da chi li ha ricevuti, diventano costitutivi dell'“essere” stesso. I doni dell'amicizia sono un'energia amorosa altamente poetica dell'essere umano. Non è nelle parole di conforto o di lode e neppure nelle comuni attestazioni di affetto l'amicizia di cui parlo! È in tutto il manifestarsi di una presenza che sollecita alla conoscenza. Un amico così c'è e non c'è nello stesso tempo. C'è , ma oltre il suo sé. Non so come accada, ma un amico tale si colloca in un oltre luminoso che attrae in un vero e proprio percorso di conoscenza. Perciò, credo che non esista amicizia autentica che non generi avanzamento verso una conoscenza più alta, innanzitutto di se stessi! E che dire di quelle amicizie che non si basano sulle parole, ma su una comunione intellettuale profonda, sul piacere che deriva dalla bellezza vissuta che si desidera, per amore, comunicare all'amico! È quest'amicizia una relazione poetica della nostra grande e bella umanità! Essa ci inonda di doni inestimabili che producono la gioia delle scoperte più intime ed universali ad un tempo.

È dono recente di una poetica amicizia anche la conoscenza della poesia di Giovanni Pascoli che trascrivo in dono.

Nel pórci in ascolto del testo, ci sembra di fare una passeggiata simbolica, in bicicletta. Il tempo di questa passeggiata è reale e metaforico insieme. Trascorre dal mattino alla sera, dall'autunno all'estate. Attraversando una natura carica di analogie, il ciclista pedala sulla strada della memoria. I ricordi si accendono come il soffio della “ piccola lampada” che “brilla” nell'oscurità. Dall'attimo della partenza (la “sveglia del querulo implume”), fino al traguardo, ovvero il punto dell'estrema partenza (“più lenta la piccola squilla dà un palpito, e va...”), le immagini trascorrono in quadri della natura, “correlativi oggettivi” di esperienze sofferte o vagheggiate. Il mistero della vita ci seduce. La passeggiata esistenziale si fonde e si confonde nella vita della natura grazie alla melodia poetica semplice e sapiente a un tempo nel contenere il senso nel puro suono che sprigiona i colori della vita (“lo strepere cupo del fiume”, “un mare dorato di tremule messi”, “un battito...vidi un filare di neri cipressi”). La passeggiata, calata la notte, si chiude in cerchio col verbo “ io ritorno” che allude dolcemente alla vita come un “tornare”, fino all'istante supremo della morte, quando l'io rifluisce nel mistero dal quale si era svegliato alla vita. Scandisce la melodia delle immagini l'argentino “dlin dlin” , teneramente fonosimbolico, del campanello della bicicletta.

La Bicicletta
Mi parve d’udir nella siepe
la sveglia d’un querulo implume.
Un attimo... Intesi lo strepere
cupo del fiume.

Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule mèssi.
Un battito... Vidi un filare
di neri cipressi.

Mi parve di fendere il pianto
d’un lungo corteo di dolore.
Un palpito... M’erano accanto
le nozze e l’amore.
dlin... dlin...
II
Ancora echeggiavano i gridi
dell’innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l’umida zolla.

Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.

Io dissi un’alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sé.
dlin... dlin...
III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch’io venga o tu vada,
non è che un addio!

Ma bello è quest’impeto d’ala,
ma grata è l’ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo... Già cala
la notte: io ritorno.

La piccola lampada brilla
per mezzo all’oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va...
dlin... dlin...
dai Canti di Castelvecchio di G. Pascoli

domenica 30 maggio 2010

Οἶδα - λόγος - μύω - μύθος...e il senso dello studio del Greco e del Latino

Οἶδα (oida) è un verbo greco. È il perfetto di un ricostruito presente *εἲδω (*eido). La radice indoeuropea di οἶδα è *wid che ha dato origine al campo lessicale del latino “video”, dal quale deriva quello del nostro “vedere”.
Quando al ginnasio studiai il verbo politematico ὁράω (orào)=vedo imparai che la forma οἶδα del perfetto vuol dire sia io “ho visto” che “io so”. Mentre scrivo vado riflettendo su quello che, a mio avviso, è il senso dello studio delle lingue del mondo classico. Come mi ha fatto notare una mia carissima amica, il Greco e il Latino non mi interessano per sfoggiare citazioni strabilianti per chi ascolta; anzi, allorché l'erudito di turno infiora il suo discorso di citazioni latine mi sembra di vedermi comparire d'innanzi il povero Renzo che mi sussurra
ma che vuole che ne faccia del suo Latinorum ?

No, non è per questo che ho studiato il Latino e il Greco io!
Del resto ho frequentato il liceo quando la scuola gentiliana difatti era ormai in crisi, nel tempo in cui la solida biblioteca, dove si era certi di apprendere il sapere universale, stava già andando in pezzi, cedendo il posto ad un insegnamento - apprendimento di frammenti più o meno luccicanti e preziosi.
Eppure il segno di quelle lingue è nel mio modo di essere, e di cercare. Οἶδα “io vedo e so”. E proprio qui è il nodo. Nel senso della radice *wid che, tra l'altro, dà anche origine alla parola “idea“ e a tutti i suoi derivati. Io “vedo e so” . È negli occhi il principio del sapere.
Perciò ho avuto come un sussulto quando ho letto della scoperta della funzione rilevante che assumono i neuroni specchio nei processi della conoscenza. Gli occhi come specchio. Specularità del mondo negli occhi ed empatia. È un modo di conoscere immediato. Il mondo circostante entra negli occhi e io lo riconosco in me. Poi comincia il tragico del destino umano: “esprimersi”, “emettere" questa conoscenza fulminea dello sguardo. C'è nella lingua greca un altro vocabolo, (più famoso questo nel suo duplice significato): λόγος (lògos) = “pensiero” e “parola”. Il destino tragico è in questo passaggio dalla luce fulminea di οἶδα “io vedo e so” al processo del λόγος = “pensiero” e “parola”, in latino ratio ed oratio, secondo la traduzione di Cicerone (De Oratore, I, 50). La ratio implica un ordine cosciente quasi un distillare della mente che deve tra-durre nell'oratio quanto è stato visto e conosciuto simultaneamente. Ora, secondo il senso che ha per me la conoscenza delle lingue classiche, mi affiora alla mente un altro vocabolo che significa “vedere”, μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, dal quale deriva anche la parola “mistero” con tutto il suo campo lessicale. Da tempo mi chiedo se possa ricollegarsi a μύω anche μύθος (mythos) = mito, vocabolo di etimologia oscura. Μύθος è di significato affine a λόγος, ma il “pensiero” è quello “immaginativo – fantastico” e la parola è “favolosa”. Come se οἶδα “io vedo e so”, secondo il procedimento della specularità del mondo negli occhi, si traducesse in un immediato μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, (io nel pensier mi fingo), e si facesse ποίησις (pòiesis) di μύθος (mythos).
Ecco, è questo il vedere nel sogno, il vedere del poeta , che secondo il mito è cieco nella luce del mondo delle apparenze, forse perché i suoi occhi sono stati accecati dalla luce della verità una volta che l'ha contemplata. Ma gli occhi che guardano nella notte sono occhi che hanno posseduto per un attimo il senso dell'universo.
Al poeta allora tocca vedere e conoscere nel buio il mistero che solo il mito sa raccontare.
Possa la mia flebile parola sussurrare un barlume di questo senso!

domenica 23 maggio 2010

Il volo è l'ala

Chi dirà del gabbiano ferito in volo
che atterra tramortito e stupido
agita le ali sul lido brulicante
di sorridente indifferenza?

O della farfalla prigioniera dell'entomologo,
con l'ala recisa tra i vetrini del microscopio?

Il volo è un volo se più non atterra.
Distacco eterno che più non progetta.

Il volo non sa le ali.
Il volo è l'ala stessa,
che altro non sa...
... se non il volo.

mercoledì 12 maggio 2010

Sant'Angelo in Formis

Il professore di storia dell'arte del liceo in cui ho studiato era un uomo buono. Amava la sua materia e si addolorava di avere così poco tempo per insegnarcela.

Un'ora settimanale appena!
ripeteva ogni volta che entrava in classe. In verità, a quel tempo, io e i miei miei compagni ce la ridevamo, perché il professore finiva col perdere, sempre, almeno un quarto di quell'unica ora, per lamentarsi della insensibilità degli Italiani verso l'arte.
Come vorrei dirgli che seppe rendere prezioso quel tempo per lui tanto esiguo!
Ora rivedo quel volto chiaro, l'alta fronte che sembrava non finire mai a causa della calvizie della parte anteriore del capo, al centro del quale spuntava, invece, folta ed ispida, una candida chioma a mo' di pennello. Per questo, quasi non ci si rammentava più del suo vero nome, lo si nominava il “professor Pennellone”. E, del resto, questo nomignolo, che lui fingeva di ignorare, al professore di Storia dell'arte stava proprio “a pennello”.
Alto e dinoccolato, indossava sempre lo stesso abito grigio, lindo quanto liso. Conosceva a menadito tutti i miti classici e quelli biblici, e gli piaceva raccontarceli, mentre ci insegnava a “saper vedere” le opere d'arte raffigurate sul nostro manuale, quello di Carlo Argan.
In una parte della mia memoria si è così conservata una galleria di immagini. Alcune, nel tempo, sono andata a cercarle nell'originale.
Ho viaggiato fino alla dorata Micene per attraversare la Porta dei Leoni! Mi sembrava di sentire ancora il rotolio dei carri e lo scalpitio dei cavalli dell'esercito di Agamennone in marcia verso Troia.
In una torrida estate ateniese ho scandito la sequenza dell'ordine dorico, abbacinata dalla luce splendente sul marmo pario del Partenone.
A Firenze, in un dolce settembre della mia giovinezza, nella cappella Brancacci della chiesa del Carmine, il "professor Pennellone" pareva raccontarmi la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio.

Caro professore! ti sono ancora riconoscente!

Ti devo anche il ricordo di una basilica benedettina, una chiesina, in realtà, un po' bizantina e un po' romanica, Sant'Angelo in Formis, nell'omonimo borgo, su un lieve pendio, non lontano da Capua.
Negli anni, più volte mi ci sono recata. Ma, fatalmente, ogni volta ho trovato l'ingresso sbarrato per motivi diversi. Finché, quando ci sono andata l'anno scorso, in una domenica d'agosto, finalmente, il cancello d'accesso all'abbazia era aperto. L'ho varcato, trattenendo il respiro.

Risuonano i miei passi sul basolato antico mentre attraverso una viuzza incassata tra antiche costruzioni tufacee raccordate da un arco.
Alzo la testa. Con gli occhi inseguo la verticale del sobrio e solido parallelepipedo dell'indipendente campanile che si leva alla mia destra ad annunciare la chiesa, che intravedo di sfuggita. Mi volto a sinistra. Il cuore comincia a sorridere. Davanti alla chiesa una piazzetta rettangolare, lastricata di pietruzze irregolari e bordata su due lati di cipressi svettanti nell'azzurro cinerino del cielo, mi accoglie in una dimensione sospesa. Volto le spalle alla chiesa senza guardarla e, lentamente, mi avvio in fondo alla minuscola piazza sopraelevata che termina in un muricciolo. Davanti a me si stende la piana di Capua. All'orizzonte gli occhi si immergono in una distesa celeste circonfusa, laddove, forse, è il mare che si fonde col cielo. Ecco, ora mi volto. Gli occhi scorrono la doppia fuga dei cipressi verso la chiesa e la inquadrano sullo sfondo, poi si riposano sul pronao ombroso e, rintracciando le ogive musicali dell'intercolumnio, si levano insù, sereni, fino al triangolo del timpano, che fa somigliare la basilica ad una capanna. Salgo i gradini davanti al pronao. Passo sotto il più elevato arco centrale ed entro nel tempio.
Il silenzio pacato della luce si tinge di azzurro e di rosa nella ieratica e ingenua immagine del Cristo Pantocratore affrescata nell'abside.
Il tempo del sacro si racconta continuo, dalle colonne e dal pavimento di epoca romana fino alle narrazioni bibliche bizantineggianti dipinte lungo le pareti in colori ridenti qua e là sbiaditi o cancellati dal tempo della storia. Non mi interesso dei particolari artistici.

Mi ritrovo assorta in una grandiosa semplicità.
I confini angusti del tempio e del tempo si dilatano nell'ombra luminosa.

Esco.
Riattraverso il pronao.
In fondo alla piazzetta incorniciata dai cipressi
si arrossa il celeste occidente.
Oltre la piana di Capua, tra un po',
il sole abbraccerà il mare.


sabato 1 maggio 2010

Elegia di una strega

Donna chi sei?
Una prigioniera degli angeli.
Donna perché piangi?
È la pioggia d'aprile.
Donna che c'è nel tuo cuore?
L'abisso dell'universo.
È il mio reame
la notte più buia
dove non hanno accesso biondi angeli
che minacciano purezza.
Scarmigliate streghe ne hanno il dominio
nere come la notte in cui volano
libere
e non paventano il rogo.
Finalmente Biancaneve non temo
né la bella addormentata Rosaspina.
Non busseranno alla mia casetta
Hansel e Gretel sciocchi!
Solo i ciechi e gli storpi
hanno accesso alla mia notte.
Nel buio eterno del silenzio
la voce delle streghe li consola.
Sublime melodia
che i cori angelici ignorano.