giovedì 31 marzo 2011

Caddi nel tempo un meriggio d'estate

Caddi nel tempo un meriggio d'estate.
Falciato il grano, soli nel sole i campi.

Nell'aria immota il canto roco
delle cicale scavò il silenzio.

Trepide mani a sera mi vestirono
la bianca camiciola della luna
di maree mutevole sovrana.

lunedì 14 marzo 2011

Voglio bene ad Alessandro Manzoni!

Che tempo il nostro! Gli eventi si accendono improvvisi e repentinamente evaporano e si liquefanno. E così le emozioni esplodono al tam tam mediatico per poi subitamente dissolversi e cadere nell'oblio, non trovando fertile memoria in cui possano sedimentare e trasformarsi in sentimenti di valori costitutivi dell'essere uomini.

Ma perché scrivo? O meglio, perché si scrive? Credo che si scriva per l'accendersi dei sentimenti o per l'illuminarsi di una idea. La scrittura risponde al bisogno di distillare nei segni, prima a se stessi, l'avvertimento dei moti del cuore, o di mettere in ordine le immagini e i concetti di un' idea. A meno che non si scriva per arido esercizio retorico, come perlopiù si insegna a scuola. Quando poi i moti e le urgenze del cuore si trasformano in creature fantastiche, in immagini tangibili, allora la scrittura diventa poesia.


In questi giorni quante parole suggerisce il revival risorgimentale!
Per me non può essere che un piacere! Nelle felici aule della mia infanzia, delle quali ho parlato altrove, ho imparato tutti gli inni che, improvvisamente rispolverati, risuonano ora dovunque.
Mi ricordo anche di aver dovuto mandare a memoria, in quarta elementare, Il Giuramento di Pontida di Giovanni Berchet che, misero lui, piangerebbe oggi di dolore venendo a sapere della trasformazione simbolica subita dalla Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa per opera di Umberto Bossi e compagnia.

Da parte mia, prima che risuonasse la fanfara risorgimentale dei centocinquanta anni dell'Unità, ho sempre proposto lo studio della poesia romantico - risorgimentale. Del resto la nostra grande lirica romantica è tutta intrisa di quello spirito.
Tralascio il fuoco eroico e le Muse “del mortale pensiero animatrici” delle brucianti parole poetiche di Ugo Foscolo per soffermarmi sulla voce universale di un poeta della giustizia, del dolore, della fede, degli “umili” riscattati, della lingua della chiarezza da opporre alla lingua degli imbroglioni azzeccagarbugli, aiutanti meschini dell'illegalità e della protervia del potere. Parlo di Alessandro Manzoni, nipote del grandissimo Cesare Beccaria, un'altra gloria italiana, ma soprattutto un paladino dei diritti universali degli esseri umani.


Quando leggo il Coro dell'atto terzo della tragedia Adelchi, voglio bene ad Alessandro Manzoni. I versi nascono da ragione e sentimento unanimi. E l'amor di Patria non è retorico né nazionalista. Lo sguardo del poeta si posa addolorato su un “volgo disperso che nome non ha”. Dal dolore nascono le parole. Amaramente il poeta considera il tralucere della “fiera virtù” dei padri dai “guardi dubbiosi, dai pavidi volti”, fieri delle loro “superbe ruine”. Il sentimento patrio del Coro non è disgiunto dagli ideali dell'Illuminismo, dei quali gli occhi della fede hanno ampliato l'orizzonte, in una prospettiva storica dal respiro metafisico, mai rassegnato, ma sempre animato dall'ardore di un militante della giustizia, hic et nunc.
È per questo che la voce manzoniana sa essere satiricamente sferzante verso “il volgo disperso”. Questa forza vorrei per dire agli italiani che non basta sventolare il tricolore, cantare gli inni ed esaltare le nostre “superbe ruine” a rinnovare il coraggio e le speranze per l'Italia. È necessaria una eroica volontà, laddove ogni giorno siamo noi a decidere la nostra azione, per opporsi all'ingiustizia, all'illegalità, alla prevaricazione e all'arroganza di una cultura sempre più espressione di quel “pensiero unico” che ci concede i sussulti emotivi di un giorno, ma poi ci imbavaglia e ci schiaccia con le logiche dei sondaggi e delle percentuali, con i contentini gettati al “volgo disperso” come l'osso ai cani affamati.

La memoria è sacra, ma può essere sterile rievocazione, retorica manifestazione, se non alimenta il desiderio di una rinascita autentica, se non accende “il forte animo a egregie cose”, a testimoniare che non “un volgo disperso” ma un Popolo unito spera, e crede che libertà, giustizia e solidarietà, siano i valori fondanti dell'Italia.

Coro dell' atto terzo della tragedia Adelchi di Alessandro Manzoni

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.

domenica 13 marzo 2011

Mammole e Margherite

L'altrieri Margherita s'è chinata
sull'erba del giardino, sparsa
di fiori della timidezza.

Di me memore, mammole ha raccolto
in un delicato mazzolino.

Dal bicchiere adagiato sull'acquaio
mi sorridono quiete le viole.

Sussurrano degli occhi di pervinca
di Margherita
la mia e la lor gentile amica.

domenica 6 marzo 2011

Le brume di marzo

Le brume di marzo profumano di biancospino
e velano conche muschiate molli di mammole.

Le brume di marzo sognano una caduta all'indietro
alle soglie di pietra brillante
dove un cancello di tortili ferri barocchi
cigolando s'apre ad un ignoto giardino.

Un frullo alato palpita nell'intrico dei rovi
grondanti perle di rugiada
e alita tra i rami ingemmati d'incerto verde
e tra impazienti corolle bianco rosa
dischiusesi ardite nell'aria
che non sa più dell'inverno
né ancora sa di primavera.

Nell'assoluta bellezza di un varco ignaro.

Limitare del sogno che non si schiude
gemmato di acerbe rose, gelose
di sbocciare, contente dell'attesa...
nelle brume di marzo.

giovedì 3 marzo 2011

La voce umana: sprofondamento ed elevazione


Gli armonici della voce umana sono il suono del silenzio, la comunicazione autentica.

… Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. (G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta).

Leggete questi versi e fermatevi sulle vocali, badando alle arsi, ovvero alle posizioni forti sulle quali cade l'accento ritmico.

… èo i eéo
óe à a oèe aa oàa;
óai a aàa,
e iào ea àe i iúe aàe

È rilevante la prevalenza delle vocali aperte dal tono grave. Risuona la “a” sedici volte, undici la “e”.

Poche sono le vocali chiuse dal suono cupo: sette volte la "o", solo due volte in arsi, in “rómpe” e in “sgómbrasi”, dove però hanno l'effetto di un colpo su un tamburo, quasi ad annunciare un evento straordinario.

Una sola volta la “u” , e per di più nello scivolare del dittongo di fiú-me che incede nello “slargo” lento, aperto e maestoso - “aàe” - di “appare”.

Cinque volte la vocale “i”, e di queste volte per ben due forma un dittongo: -ià (chiaro), -iú (fiume). In questi dittonghi risuonano in arsi la “a” e la “u”.

È facile ora ascoltare in questi versi un “largo” festoso, un “canto dell'essere” che annulla il confine tra l'interiorità dell'io e il mondo esterno, tra il desiderio vitale e l'esplodere della vita nell'universo.

La parola poetica è un suono che squarcia i folti nembi e ne trae la luce.

Eppure intuisco che il suono vocale degli esseri umani è sempre un “canto dell'essere”.

È per questo che ho letto appassionatamente Il canto dell'essere” di Serge Wilfart, edizioni Servitium.
“Nato in un paesino belga”, Serge Wilfart trascorse l'infanzia nella paterna fabbrica di molle, “circondato dalle molle, dall'avvolgersi infinito delle spire”. Alla morte del padre fu colpito dal rivelarsi della “voce wagneriana” di sua madre: “ il giorno del funerale [...] mia madre gettò un grido, uno solo – il lungo urlo di un animale strozzato”. Dopo aver frequentato diverse scuole, Serge approdò al conservatorio per apprendere il canto lirico. Fu attraverso quella esperienza che egli concepì l'idea che la voce autentica degli uomini sia come bloccata e stravolta, inibita da “ un sistema di comunicazione puramente cerebrale”. In seguito a questo convincimento, Serge Wilfart, ha abbandonato l'attività di cantore per dedicarsi a quella di insegnante. Oggi egli è diventato “un professore di voce […] una specie di liutaio che ricostruisca al tempo stesso lo strumento e il musicista”. E in effetti in tutto il suo scritto Wilfart sostiene che, per recuperare la voce autentica, “canto dell'essere”, bisogna percorrere il sentiero che penetra nell'interiorità, fino a raggiungere quella profondità donde emana il suono viscerale dell'essere personale. Perciò “il professore di voce” insiste ripetutamente sulla necessità di recuperare la capacità di sondare i suoni gravi della “a” soprattutto, e della “e”, perché la prevalenza delle emissioni della acuta e alta “i” manifesta l'oppressione delle gabbie imposte da un'educazione essenzialmente cerebrale, che impedisce all'io di comunicare col proprio centro di gravità, e di esprimere la pienezza dell'essere.
Bisogna scendere nelle viscere e da lì risalire per elevarsi eretti tra cielo e terra.
"Sprofondare nella “a” e tendersi nella elevazione della “i”.

Lentamente ho attraversato la trama del testo “Il canto dell'essere”. Dall'immersione nelle parole di questo libro riecheggia la profondità della voce umana. Sempre gli accordi bassi mi hanno fatta vibrare, come un tremito davanti all'abisso. Perciò, da questa immersione è vibrata un'intuizione, un affondo nel suono stesso, un anelito a scendere in quella profondità da cui il suono emerge libero, e si propaga all'infinito.

Nel fondo profondo, con il tonfo grave di un corpo greve che affonda nell'insondabile profondità del mare: “e il naufragar m'è dolce in questo mare” (G. Leopardi. L'Infinito).

E di seguito un altro sprofondamento grave risuona: “Trasumanar significar per verba / non si poria” (Dante, Paradiso, I, vv.70-71).
Ascoltate:
“trasumanar significar per verba” è un affondare in se stessi trascinati dalla sonorità grave delle cinque “a”, delle quali ben due sono in arsi.
Ascoltate ancora:
non si poria” è un risalire con l'acuto cristallino della “ i” in uno iato tesissimo.
Ecco, è questo il suono dell'uomo eretto in comunicazione piena tra terra e cielo.