martedì 26 novembre 2013

Gli usignoli torneranno

- Mi scusi professoressa, potrebbe spiegarmi che cosa vuol dire “usignolo”? Il dizionario mi traduce il latino “luscinia” con questa parola che io non conosco -.

Lì per lì resto attonita, quasi stranita, poi sorrido al mio quattordicenne allievo e gli spiego che cos'è un usignolo. Subito dopo, mentre gli alunni continuano a svolgere il loro compito, incomincio a vagare nella memoria, chiedendomi quando ho incontrato per la prima volta la cosa e la parola “usignolo”. Ma è inutile, non riesco proprio a ricordarmelo. Santo cielo! Non sono per niente certa di aver visto un usignolo reale nella mia vita! Possibile? Ma no, devo averlo incontrato da qualche parte perché riesco or ora ad evocarne i gorgheggi. Ma sì, confuso tra i passerotti, i merli, le rondini e le allodole, tra i rami degli alberi della mia vita avrò visto, perdinci, anche l'usignolo!
Eppure no, non ne sono certa. E, per giunta, penso che non saprei neanche dire quando ho compreso il piano simbolico della parola “usignolo”.

Continuo a rimuginare.
Lentamente, pensa e ripensa, trovo il bandolo della matassa.
Ma sì, le fiabe! Ecco dove ho incontrato dapprincipio la cosa e la parola “usignolo”!
Le ho scoperte, insieme, negli innumerevoli boschi dei racconti per l'infanzia!

La fiaba è all'origine della mia esperienza della vita oltre l'orizzonte della casa e dell'angusto spazio circostante. Nei libri di fiabe, luoghi di iniziazione alla formazione di lettrice, prima ancora che nei testi specialistici, ho appreso i nomi delle diverse specie della categoria degli uccelli.

La confidenza con le narrazioni ha generato la conoscenza del mondo e la confidenza con le cose del mondo e con i loro nomi. Per questo l'usignolo è diventato familiare, perché nelle narrazioni fiabesche natura e cultura sono così avvinte nella parola mitopoietica da generare simultaneamente la conoscenza delle cose, la competenza linguistica che le rappresenta e, infine, la capacità interpretativa del loro piano simbolico all'interno delle narrazioni che ispirano.

Grazie a questa confidenza con la lettura, fin dalla più tenera età, a scuola, di soglia in soglia, avventurandosi nei linguaggi delle materie, si impara a educare e a raffinare, su testi di contenuto e genere diversi e via via più complessi, le facoltà analitiche ed ermeneutiche proprie della sensibilità e della intelligenza umana.

È accaduto così anche a me quando, dopo aver letto la prima storia in cui era nominato l'usignolo, ne ho conosciute tante altre. Ed è sorprendente scoprire che l'usignolo ricorre come protagonista in molte narrazioni della tradizione letteraria, dalla fiaba di Andersen (L'usignolo dell'imperatore), a quella di Wilde (L'usignolo e la rosa), dal racconto esiodeo (L'usinolo e lo sparviero), a “La sfida tra un cantore e un usignolo”, raccontata da Mercurio nel poema “Adone” di Giambattista Marino, fino all'invocazione lirica dell' “Ode all'usignolo” di John Keats, e alle tante altre storie che hanno fatto dell'uccellino - usignolo la “figura” stessa di bellezza e fragilità, generosità ed eroismo, bellezza e verità.
Sicché, l'usignolo sarebbe inseparabile dalla storia della mia vita anche se non l'avessi mai visto e sentito.

E allora, si potrebbe affermare che la cultura è conoscenza vasta e plurale della natura. La cultura (l'origine del termine è nel verbo latino “colere” ossia “coltivare”) è scavo profondo del territorio della vita, dentro e fuori di noi. Il territorio della vita è storia complessa di storie disseminate nei testi interconnessi della tradizione culturale o, per meglio dire, interculturale dei popoli della terra.

Penso che si possa concordemente affermare che la scuola è il luogo della educazione alla conoscenza e alla cultura e che, pertanto, il suo obiettivo irrinunciabile consiste nel rendere ogni individuo consapevole di sé e del mondo , affinché, da uomo libero inscriva la sua storia nella Storia.
Sicché, quando sento parlare di “certificazione” o di “valutazione” delle competenze sulla base di un sistema ispirato dal “pensiero unico”, non posso fare a meno di sussultare, sdegnata. E non riesco a capacitarmi della svalutazione dei contenuti che genera un prassi didattica indecorosa, orientata all'addestramento e non all'educazione.

L'accettazione indiscussa dei test proposti dall'istituto di valutazione, per il timore di esiti negativi, ha spostato gli obiettivi dell'insegnamento dai contenuti all'esercizio meccanico con soluzione univoca. Gli adepti al “pensiero unico”, senza battere ciglio e con ostentata sicurezza, ripetono immancabilmente che bisogna far esercitare i ragazzi affinché superino le prove INVALSI e i test di accesso al lavoro. La conoscenza dei contenuti non è importante, purché siano addestrati a scegliere la risposta esatta.
Non c'è scampo da questi neopositivisti della scienza dei grafici e delle slide di “power point”.
Ma, in quest'ebbrezza raggelata, senza storie, esaurita nella rappresentazione statistica dei dati, dove sono gli occhi stupiti dei giovani che scoprono, imprevedibilmente, traducendo un brano latino, l'esistenza dell'usignolo e delle sue narrazioni? Quale spazio potrà avere la ricerca dialogica su cui si basa l'autentico insegnamento?

Cedendo al “pensiero unico” si rischia di venir meno alla ricerca della verità.
I Greci nominarono “alètheia”, ovvero “svelamento”, la verità. Alètheia, infatti, si nasconde e, per svelarsi, ha bisogno dell'ombra. È nell'indefinito che la si intravede. Alètheia riluce di quando in quando, qua e là, lungo il cammino dell'umanità, grazie al pensiero e all'arte stessa degli uomini che la cercano, continuando a leggere nel “grande libro della natura” e in quello della cultura, non solo con l'ausilio del pensiero logico, ma anche di quello intuitivo e creativo del genio umano. E questo secondo libro ha infinite pagine bianche da riempire prima della fine della Storia. Sono le pagine riservate alle letture e riletture, alle prove e riprove, alle analisi e alle interpretazioni di innumerevoli cercatori di oggi e di domani.
Grazie a questi cercatori gli usignoli torneranno per inventare nuove melodie.



giovedì 14 novembre 2013

Una interpretazione della novella "Rosso Malpelo" di G. Verga


Mi capita spesso di affermare che la letteratura è il luogo dove si incontra l'intera esperienza della vita umana.
Stamattina mi sono svegliata in compagnia di Rosso Malpelo.
Rosso Malpelo è un “caruso” uscito dalla fantasia di Giovanni Verga. Si chiama così a causa dei suoi capelli rossi che per la gente del villaggio sono il segno di una cattiveria congenita.
“Persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo”.
È una novella tremenda. Il racconto spietato delle dinamiche di gruppo alleate contro una sorta di capro espiatorio dell'infelicità umana. 
Non so se tra i commenti a questa novella si trovi un'interpretazione del genere. 
A me sembra che Verga abbia riversato nel racconto il suo dolore di  uomo e di scrittore disadattato nella società della seconda metà dell'ottocento. Si potrebbe vedere in Malpelo l'artista maledetto incarnato dagli Scapigliati milanesi, alla cui poetica lo scrittore siciliano aderì nel corso del suo soggiorno nel capoluogo lombardo.

Malpelo lavora in una cava di rena, schiavo in compagnia di altri schiavi. Ma a differenza di Malpelo e di quella "bestia" ingenua che era stato suo padre, gli altri minatori si stringono in alleanza, e così raggruppati si sentono forti e perdono la coscienza della loro condizione. Di conseguenza, incoscientemente, trovano nel "diverso" Malpelo il soggetto su cui possono esercitare una sorta di supremazia. Risalta così l'oppressione del gruppo sull'individuo inerme, come la "rena traditora" del pilastro crollato su mastro Misciu, il padre di Malpelo.  

"La rena è traditora - diceva a Ranocchio sottovoce: - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui".

Questo è il pensiero tragico di Verga. Gli uomini fanno gruppo contro un “diverso” per sentirsi esistere. E il gruppo sociale è cieco.
Nella novella questa cecità è descritta, nella sua empia crudeltà, dallo stile oggettivo teorizzato dallo scrittore. Verga, infatti, facendo sua la poetica del Naturalismo francese, assegna al narratore il compito di rappresentare il “fatto nudo e schietto”.
In una narrazione siffatta “la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile […] l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé”.

Ma se è vero che la mimesi linguistica e il racconto corale riescono a celare la mano del grande scrittore verista, è ancora più vero che l'ispirazione verghiana sgorga da una straordinaria pietà umana. L'amore filiale di Malpelo si manifesta in quel suo scavare, rabbioso e disperato, nella rena sotto la quale è sepolto suo padre. Scava con le unghie senza sosta finché non gli si staccano dalle dita pendendo sulle mani insanguinate. Allora il cuore a noi si stringe in una morsa di pietà. E poi la pietà cede al dolore, mentre leggiamo i passi in cui Malpelo lucida accuratamente gli attrezzi appartenuti a suo padre e contempla e accarezza con lo sguardo le scarpe di lui.

Spietato, invece, è lo scrittore nell'annotare i comportamenti del gruppo sociale verso Malpelo
Eppure, fatta eccezione per il padrone e per l'ingegnere della cava, ai quali Verga fa appena cenno, quanto basta per farne gli emblemi del gelido interesse economico, e per Ranocchio, esponente della schiera dei fragili destinati a soccombere secondo la logica scientifica della selezione naturale, il gruppo sociale è costituito da miserabili come Malpelo. Ma i miserabili fanno gruppo per sentirsi forti e per trovare una sorta di gratificazione esistenziale nella miseria della sorte che tutti li accomuna. La sorte che tutti ci accomuna.

A Malpelo, infine, non resta altro che la compagnia degli oggetti appartenuti a suo padre, quando decide di accettare l'incarico pericoloso di un'esplorazione nella cava, dove si smarrirà per sempre.
"Prese gli attrezzi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui".

lunedì 11 novembre 2013

Tu ne quaesieris, scire nefas

Caro Ministro dell'Istruzione,
Le scrivo mentre riascolto la Sua introduzione al convegno "Uno, nessuno, centomila. Libri di testo e risorse digitali per la scuola italiana in Europa", tenutosi presso la Scuola Normale di Pisa. È apprezzabile il Suo sforzo nel mettere a fuoco le idee, ma si avverte la fatica di annaspare nel vuoto ideale. Il Suo discorso segue la retorica disordinata, calcata dall'enfasi della captatio benevolentiae. Sono una insegnane anagraficamente vecchia, ma ancora giovane nella mente e nel cuore. Siccome non ho disdegnato l'alfabetizzazione digitale, sono in grado di avvalermi delle nuove tecnologie nello svolgimento del mio lavoro. Ancora non mi è consentito di andare in pensione, ma non me ne rammarico, perché mi piace insegnare.
Ministro, mentre la ascolto, avverto la Sua ansia di formare gli insegnanti, colgo il disappunto, da Lei espresso con gentilezza, nel denominare “più conservatori” quei docenti (ma sono veramente pochi, mi creda) ostili al digitale. Le Sue parole, il Suo tono mi trasmettono disagio e tristezza. Mi rendo conto di sembrare una sciocca, perché Lei non mi conosce, non sa neppure che io esisto, ma non posso fare a meno di sentirmi punta nel vivo. Lei, Ministro, è molto più giovane di me, quindi più confidente nel nuovo, ma , forse a causa della stessa giovane età, Le manca l'empatia, quella straordinaria capacità umana che, oggi, in seguito alle ricerche e agli esperimenti del neurobiologo Giacomo Rizzolatti, è stata riconosciuta, scientificamente (so che questo avverbio e tutto il suo campo semantico Le piace moltissimo), come una attività cerebrale promossa dai cosiddetti neuroni specchio. Ebbene, Lei, Ministro, non conosce e non comprende la situazione reale degli insegnanti e, come del resto i Suoi ultimi predecessori, è in grave difetto verso gli insegnanti, i quali si sono formati  sul campo, studiando e meditando su tutta la loro esperienza cognitiva, anche su quella di quando erano discenti, integrando quella parte del viaggio nel sapere con il percorso compiuto come docenti. Se di formatori c'è bisogno, questi devono essere reperiti sul campo e devono essere ascoltati sia da Lei, Ministro, che da quegli esperti che ogni tanto piombano nelle scuole e pretendono di insegnare ad insegnare, quando, magari, non vivono l'insegnamento da anni o, addirittura non l'hanno mai vissuto. E a questo punto interviene la questione basilare della comunicazione tra Istituzioni e cittadini, tra Ministeri e lavoratori. In tale questione è rilevante il problema della presenza di filtri che impediscono la conoscenza della realtà. Questi filtri possono essere i vari staff vicini alle dirigenze, gli stessi dirigenti, o le agenzie di monitoraggio e valutazione, che trasmettono soltanto dati numerici, inadeguati ad illustrare la complessità del reale. Nelle stesse scuole, Ministro, si lavora ipocritamente sul burocratico, perché, in verità, i dipartimenti disciplinari non funzionano come sarebbe necessario,  ma si limitano ad una produzione meramente burocratica. Pertanto è urgente, innanzitutto, la conoscenza della realtà, per capire come sono e che cosa fanno realmente gli insegnanti sul campo, dei quali non si comprende nulla se ci si ferma ad esaminare i risultati tabellati dalle agenzie di monitoraggio.  È difficile, lo so. Tuttavia si potrebbe tentare qualcosa. Penso all'incentivazione, non formale, della ricerca dipartimentale e interdipartimentale, e alla produzione di veri e propri diari di bordo da trasformare in materiale didattico condivisibile mediante quella digitalizzazione che Le sta così a cuore. Inoltre, ritengo ineludibile la necessità di rivedere la legge dell'Autonomia Scolastica che ha depauperato culturalmente la scuola, favorendo un protagonismo docente generalmente svuotato di contenuti autentici, e ha creato fratture nocive tra gli insegnanti, la maggior parte dei quali partecipa alla vita scolastica con silenziosa frustrazione, e subisce ormai passivamente le scelte oligarchiche.  Prima dell'Autonomia e delle "innovazioni" di Luigi Berlinguer e dei suoi successori – mi sia concessa la nostalgia – quando si incontravano, animati dal desiderio di confrontarsi, gli insegnanti si raccontavano le esperienze, i problemi, si chiedevano scambievolmente pareri sui compiti assegnati, sulle verifiche, sulle metodologie, si confidavano persino le scoperte delle ultime letture. A quel tempo nella scuola c'era vivacità dialogica. Dai discorsi si percepiva il sentimento comune  di svolgere un lavoro importante per la vita dei singoli ragazzi e per tutta la società civile. Oggi, invece, nelle scuole si ascolta un balbettio di acronimi e si assiste a un annoiato girare e rigirare di griglie, tabelle e test a crocette. E il risultato di tutto questo è il disastro dell'eloquenza e, pertanto, del pensiero, in tutte le sue possibilità, soprattutto quella creativa, da Lei ritenuta importanissima, di insegnanti e allievi.
Infine, sono convinta, come Lei del resto, Ministro, che la scuola può molto per risollevare le sorti dell'Italia. E proprio per questo ritengo che non ci si possa basare su analisi sommarie, per conoscere la realtà. Concordo con Lei anche quando afferma che non si può avere un feedback “diretto, empirico, immediato delle scelte che facciamo”. E allora, cara Ministro, le chiedo come si possa conoscere  hic et nunc, con un test a crocette, il feedback dell'azione didattica.
Quante volte ci interroghiamo sulla validità del lavoro svolto! L'etica del ruolo ci impone questo interrogativo.
Quante volte ci capita di essere contenti e di sussurrare - sì, oggi la lezione è stata efficace, abbiamo lavorato bene -. Quante altre, presi dallo sconforto e dal dubbio, temiamo di non essere stati in grado di intercettare la mente e il cuore dei nostri allievi! In queste occasioni mi sale alle labbra quel verso famoso di Orazio:
 “Tu ne quaesieris, scire nefas...”.
 Ecco, Ministro, non sarebbe male tessere ogni tanto un elogio della imperfezione didattica.

Cordiali saluti

Giuseppina Imperato
(docente di Italiano e Latino presso il Liceo “E. Medi” di Cicciano)